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Cronaca di una cena nel ristorante in carcere più stellato d’Italia

InGalera, la nuova realtà culinaria situata all'interno della Casa di reclusione di Bollate, è aperto a tutti, bambini compresi. Ecco il resoconto in salsa leggera - scritto dal collaboratore di Vita.it Daniele Biella, entrato nel ristorante "in borghese", per una festa familiare - di un'esperienza che ribalta i paradigmi e, a partire da qualità di cibo e servizio, può avvicinare più che mai la cittadinanza al mondo dietro le sbarre

di Daniele Biella

“Mamma, dove vuoi andare a cena per il tuo compleanno?”. “InGalera”. “Dove??”. Inizia così, in una serata invernale, un dialogo nato come surreale ma cresciuto di lì a poco come una delle esperienze più reali e significative che abbia mai vissuto. “Sì, al ristorante InGalera, quello che hanno aperto da poco nel carcere di Bollate”. Ah, ecco. Mia madre mi ha colto sul fatto, perché dovevo saperlo eccome: qualche tempo prima avevo dedicato un articolo di lancio proprio all’iniziativa culinaria lanciata dalla coop sociale Abc La sapienza in tavola – gestore anche di un efficiente servizio di catering – e da tempo copro con interesse umano ancor prima che giornalistico le vicende del carcere modello d’Italia, quello dove il reinserimento socio-lavorativo è all’avanguardia e, a occhio esterno, “non sembra nemmeno di essere in carcere”. Ovviamente carcere lo è (chiedetelo ai reclusi!) ma la lungimiranza dei programmi avviati al suo interno abbattono la recidiva e i luoghi comuni.

Così, in una sera dicembrina, a quasi un mese di distanza dalla prenotazione (quando ci andrete, riservate per tempo) eccoci: la festeggiata, il marito, i due figli, nuora e genero e i due – finora – nipoti. Proprio così: per la prima volta sono entrato in una struttura penitenziaria con due anime saltellanti di sei e due anni. Che emozione: “Papà, c’è da avere paura?”, chiede il maggiore. “No, vieni che ti spiego bene come funziona”. E funziona così: nel carcere ci entri davvero, il primo controllo lo superi e ti lasci il cancellone d’ingresso alle spalle, “scortato” da un giovane tirocinante di una scuola alberghiera che ti porta fin sotto gli uffici del personale carcerario – la zona detentiva è almeno un paio di centinaia di metri e un altro controllo più in là – dove è stato installato quello che ora è il fiore all’occhiello della struttura: InGalera, appunto, “Il ristorante del carcere più stellato d’Italia”, come recita il cartello all’ingresso (in tutto 52 posti a sedere, aperto a pranzo e a cena, sei giorni su sette. Si mangia quick lunch a pranzo dal lunedì al venerdì, mentre il sabato a pranzo e tutte le sere c'è cena alla carta). Sette i detenuti impiegati, più uno chef e un maitre esterni. Quest’ultimo ci viene incontro all’ingresso, accompagnato dalla persona senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile: Silvia Polleri, presidente di Abc La sapienza in tavola ma soprattutto attiva da almeno un trentennio nel fare progettazione sociale in carcere. È lei che accoglie gli invitati: non gliel’avevo detto che sarei arrivato, non mi aspettavo di trovarla lì in prima linea, il piacere è genuino e reciproco.

L’atmosfera gioviale va di pari passo con un arredamento moderno e una qualità all’apparenza destabilizzanti, al pensiero di essere in un carcere. All’apparenza, perché fatto il primo passo capisci che è il posto giusto nel luogo giusto. La cucina? Non parlo certamente da palato fino, ma dall’aperitivo al dolce è un susseguirsi di cura non scontata verso ogni dettaglio. I tre camerieri di turno, detenuti lavoratori, sono solerti e pronti a ricevere dritte dall’inflessibile quanto simpatico maitre. “E’ faticoso tenere il ritmo, ma ce la mettiamo tutta, perché una volta fuori c’è da rimboccarsi le maniche almeno il doppio di qui”, sottolinea uno di loro. Anche il cane di piccola taglia (l’ho omesso nell’elenco precedente, ma è ammesso) di mia madre apprezza il luogo, trovando una posizione che non abbandonerà fino a fine serata, a parte un momento di estrema simpatia con tanto di latrato per un cameriere. Tutt’attorno a noi – in posizione centrale, nel tavolo rotondo – una clientela varia, età dai 30 agli almeno 60 anni, giovialità e leggerezza che permettono anche ai bambini di girare liberamente tra i tavoli e la zona con un paio di puntuali divanetti.

“Allora com’è andata? Dimmelo sinceramente, mi conosci: se c’è qualcosa che non va bene, voglio saperlo”, mi esorta Silvia Polleri al momento dei saluti. “Tutto benone”. “Allora tornate presto, e fateci pubblicità, mi raccomando”. Certo, Silvia. Non vi basta il mio parere – o quello di mia madre, soddisfatta di avere soffiato le candeline dentro le mura di una Casa circondariale – pensandolo magari sotto qualche influenza particolare? Eccovi una dritta: chiedete il parere a uno dei commensali che quella sera era al tavolo di fianco al nostro. L’abito non fa il monaco, certo, ma il nome, Alessandro Profumo, può forse dirvi qualcosa.


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