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Reggio Calabria, la casa dove i minori non accompagnati ritrovano la speranza

In punta di piedi, ecco il racconto di alcune ore passate nella struttura dell'associazione Comunità Papa Giovanni XXIII in cui alcuni volontari accolgono attualmente una dozzina di ragazze e ragazzi - compresi due neonati - sopravvissuti ai barconi del Mar Mediterraneo a alle angherie degli aguzzini in Libia. Un luogo che ridà fiducia, di fronte ai dati sconvolgenti delle migliaia di minori che "scompaiono" in Italia e in Europa

di Daniele Biella

Questa è una storia di quelle in cui restare indifferenti è piuttosto difficile. Reggio Calabria, poche centinaia di metri dal mare: in un palazzo fra i tanti è aperta da mesi una casa di accoglienza dove si sta compiendo un piccolo miracolo quotidiano per dare una nuova speranza a tanti Msna, Minori stranieri non accompagnati, migranti sopravvissuti al viaggio in mare dopo essersi imbarcati in Libia. All’entrata l’incontro è con Maria, poi con Bruna e Marco, tre dei cinque volontari che vivono nella struttura che oggi ospita 12 minori, provenienti da Eritrea e Nigeria. L’età? Dai 17 anni scendendo fino a… 3 mesi. Sì, perché ci sono anche due bebé, tra i bambini che vivono nella struttura messa in opera dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Bebè che ora vedi sorridere e mangiare, circondati dall’amore, ma nati dalla violenza che le loro giovanissime madri – 15 anni – hanno dovuto subire in quel caos primordiale che è l’inferno libico, dove l’essere umano è ridotto a numero e soprattutto a un quantitativo di denaro, ovvero quello necessario per pagare il viaggio migratorio.

La scena che si presenta davanti è significativa: una lunga tavolata dove i ragazzi sono intenti a divorare – chi più chi meno – un piatto di pasta rossa e uno d’insalata. Preparato da alcuni di loro, perché qui si fa tutto a rotazione, come in ogni casa condivisa che si rispetti: i pasti, le pulizie, la spesa comunitaria, a gruppi. A tavola si tenta di parlare italiano, alcuni minori sono lì da poco, ma si sforzano e le risate che scoppiano quando ci si inceppa in una doppia consonante o in uno iato sono favolose. Si passa all’inglese, soprattutto per le ragazze nigeriane, proprio quando non ci si intende. Da qualche tempo, uno dei volontari è un ragazzo eritreo residente da anni in Italia, quindi per la lingua, il tigrino, le sue traduzioni sono oro colato. Ma come vanno i rapporti tra i ragazzi? “Non è sempre facile, gli umori cambiano in poco tempo anche perché molte delle loro esperienze – spesso traumatiche – personali sono solo all’inizio della fase di rielaborazione”, spiega Bruna, referente della casa e sotto i 30 anni di età come Maria e Marco. “Detto questo, tra loro c’è molto rispetto e non mancano momenti di profonda umanità”.

Finito il pranzo, il gruppo che sparecchia parte all’azione e se non stai attento finisci dritto nel lavandino con i piatti, tanta è l’efficienza. La voglia non scontata di rendersi utili è palpabile: “a volte ragazzi e ragazze scompaiono in stanza per un’oretta per riposarsi o per sentire la musica, ma spesso ci cercano, ci chiedono cose, hanno sia volontà che necessità di avere un punto di riferimento, così lontani da casa”, sottolinea Maria. Da quando la casa è aperta, ovvero l’estate 2015, non tutti si sono fermati, alcuni se ne sono andati senza dire nulla. Due o tre persone, non di più e dopo pochi giorni – mentre in tutta Italia sono 5mila in minori “scomparsi” dopo essere arrivati solo negli ultimi due anni, in tutta Europa 10mila, dati drammatici dell’Europol – mentre la maggior parte riesce a essere agganciata dall’affetto e le cure dei volontari. “Molti minori fanno estrema difficoltà nel gestire la loro situazione attuale, soprattutto le ragazze vittime di tratta, perché sanno che le famiglie nel Paese di provenienza vengono minacciate dai trafficanti dato che questi ultimi non sono riusciti a 'recuperarli' una volta arrivati sul suolo europeo, come avviene purtroppo per molte altre situazioni”, illustra Marco, mentre un ospite della casa 13enne, eritreo, gli si presenta davanti con il flauto e lo spartito: “mi aiuti per fare i compiti?”, è la richiesta. Soddisfatta. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze sono studenti di medie o superiori grazie alla collaborazione con il Comune di Reggio Calabria, ente che affida i minori alla struttura (per il futuro si prevede un graduale inserimento nel circuito Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, dato che il Ministero dell’Interno ha attivato da poco uno Sistema simile a quello per gli adulti ma dedicato nello specifico ai Msna) dopo il loro sbarco nel porto cittadino dalle navi inserite nell’Operazione Mare sicuro di Marina militare e Guardia costiera, che operano a fianco di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere.

Il tempo di un caffè, del controllo dei compiti per il giorno successivo, e suona il citofono: è un gruppo scout di adolescenti della zona, venuti apposta per fare un’esperienza diretta e incontrare i volontari e gli ospiti della casa. Un incontro di forte condivisione, come del resto lo era stato quello della mattina, quando Bruna, con Giovanni Fortugno, il responsabile nazionale accoglienza migranti della Papa Giovanni XXIII, che vive proprio a Reggio Calabria, era intervenuta come relatore in un corso di formazione per magistrati, avvocati e forze dell’ordine organizzato dalla Scuola superiore di magistratura reggina: un’attenzione non da poco, a quanto ha da testimoniare chi vive in prima linea la diaspora dei migranti, le loro storie, la loro voglia di ripartire da zero, nonostante tutto. I loro sguardi, al momento dei saluti, sono indescrivibili. Il mio è scosso, ma sollevato. Perché in un mare di situazioni che non vanno, ogni tanto si trova un’isola che serve soprattutto a una cosa: aumentare la speranza.


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