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Il business del cibo è sempre più un affare per la mafia

L'invasione dei clan criminali italiani nel settore delle produzioni alimentari ed agricole ha superato i 16 miliardi di euro nel 2015, mentre il fatturato dell'Italian sounding ha superato i 60 miliardi di euro. A dirlo è Coldiretti nel IV Rapporto «Agromafie»

di Monica Straniero

Il business del cibo, Agromafie, cioè dell'invasione dei clan criminali italiani nel settore delle produzioni alimentari ed agricole, ha superato i 16 miliardi di euro nel 2015, mentre il fatturato dell'Italian sounding, la falsificazione, contraffazione e imitazione del Made in Italy alimentare nel mondo, ha superato i 60 miliardi di euro. Il risultato è che gli inganni del finto Made in Italy sugli scaffali riguardano due prosciutti su tre venduti come italiani, ma provenienti da maiali allevati all'estero, ma anche tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro che sono stranieri senza indicazione in etichetta come pure la metà delle mozzarelle. È quanto emerge dai dati del IV Rapporto «Agromafie» elaborato da Coldiretti, la principale organizzazione di categoria degli agricoltori italiani, e da Eurispes.

«È necessario aggiornare le norme attuali, ormai obsolete, intensificare i controlli e inasprire le sanzioni per reprimere un fenomeno come la contraffazione, così diffuso e vario, che produce danni assai rilevanti ai produttori “onesti” e ai consumatori, che spesso acquistano prodotti non solo artefatti, ma anche di scarsa qualità e talvolta anche pericolosi e dannosi per la salute», dice Gian Carlo Caselli, presidente del Comitato Scientifico dell'Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare.

Sono circa 70 le tipologie di prodotti contraffatti, tra cui vini, formaggi Dop, falsi aceti balsamici Igp. Tra le falsificazioni spiccano i cosiddetti Kit per produrre formaggi e vini italiani. «Ma sono ancora molti i prodotti dell’agricoltura e dell’industria agroalimentare per i quali non è obbligatoria l’indicazione d’origine, rendendone di fatto impossibile la tracciabilità», legge nel rapporto di Coldiretti.

Peraltro, la disparità tra le singole normative nazionali per l’immissione dei prodotti sul mercato e la poca chiarezza della legislazione comunitaria sono un serio ostacolo per combattere la piaga delle agromafie. L’industria del cibo ha da sempre rappresentato un terreno fertile per le attività illegali della criminalità organizzata, capace di sfruttare le principali vulnerabilità proprie del comparto. «Per raggiungere l’obiettivo i clan ricorrono a tutte le tipologie di reati, usura, racket estorsivo e abusivismo edilizio, abigeato, macellazioni clandestine. Le nuove minacce al commercio e al consumo arrivano anche dal Web. Quasi un italiano su quattro (19,3%) acquista prodotti alimentari on line, con un dato più che raddoppiato rispetto al 2015 (6,1%), Ma acquistare beni alimentari online significa correre il rischio di incorrere in prodotti di bassa qualità», si legge nel rapporto.

A differenza di quanto avviene per altri articoli legati al mondo della moda e delle tecnologie, a taroccare il cibo italiano non sono i paesi poveri ma quelli emergenti o più ricchi. In testa alla classifica dei prodotti più falsificati ci sono i formaggi, in primo luogo il Parmigiano Reggiano ed il Grana Padano che, ad esempio, negli Stati Uniti in quasi nove casi su dieci sono sostituiti dal Parmesan prodotto in Wisconsin o in California.

Altro capitolo è dedicato agli immobili del settore agricolo confiscati alla criminalità organizzata. Il processo di sequestro, confisca e destinazione dei beni di provenienza mafiosa si presenta infatti lungo, confuso e spesso non efficace. Il mancato utilizzo dei beni confiscati comporta uno spreco di 20-25 miliardi di euro ogni anno Secondo il rapporto, sono circa 25mila i terreni, su tutto il territorio nazionale, a disposizione dei soggetti condannati in via definiva per associazione a delinquere di stampo mafioso e contraffazione. Il 53,5% si concentrata in Sicilia, mentre la restante parte riguarda soprattutto le altre regioni a forte connotazione mafiosa, quali la Calabria (17,6%), la Puglia (9,5%) e la Campania (8%). Sono inoltre numerosi i casi in cui i controlli hanno rilevato che alcuni beni, anche confiscati definitivamente, sono di fatto ancora in mano ai soggetti mafiosi, o da loro parenti e prestanome. Mentre il ma

Altro fenomeno criminale molto diffuso in agricoltura è il caporalato, che nella nuova manovra finanziaria è diventato reato. Con un fatturato di 9 miliardi di euro, il nuovo modello di sfruttamento del lavoro nelle campagne italiane, ha un costo per le casse dello Stato, in termini di evasione contributiva, pari a 600 milioni di euro. Un fenomeno tornato tristemente in auge nel nostro Paese, dal Mezzogiorno fino a regioni come il Piemonte, dalle aree più depresse a quelle ricche, dove le organizzazioni mafiose impongono un pizzo su ogni bracciante straniero impiegato nei campi. Nella sola Puglia si calcolano, secondo un recente rapporto della Cgil, oltre cinquantamila braccianti in nero distribuiti in 55 ghetti.

«Infine complice la crisi economica e la disoccupazione, sono sempre più numerosi gli italiani costretti a cercare un impiego nei campi: tra questi disoccupati, esodati, cassaintegrati, ex piccoli imprenditori, spesso appartenenti alla fascia dei 40-50 anni». Secondo le stime Eurispes sono circa 160.000 gli impiegati italiani del settore agricolo in condizioni di forte vulnerabilità.


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