Economia & Impresa sociale 

L’etica è un buon affare

Incentivare l’utilizzo dei programmi di speak up/whistleblowing nelle aziende? Lo scorso 21 gennaio il nuovo disegno di legge sul Whistleblowing, è stato approvato alla Camera e attualmente è all’esame al Senato

di Monica Straniero

In un mondo degli affari in cui la trasparenza è sempre più importante, risulta chiaro che alle organizzazioni aziendali viene richiesto di ricoprire un ruolo diverso rispetto al passato, in cui l’unico obiettivo per l’impresa e il suo management era la massimizzazione del profitto per l’azionista. Anche se spesso perseguire la business ethics porta agli stessi risultati della responsabilità sociale d’impresa, la cosiddetta “etica degli affari”, pone maggiore attenzione ai valori morali di equità, lealtà e affidabilità che devono essere alla base dei comportamenti delle imprese, caratterizzandone le scelte e le norme di condotta. La necessità della rifondazione etica delle imprese, intesa come mix di responsabilità e fiducia, è anche la conseguenza dei recenti scandali che hanno visto aziende riconosciute come modelli di comportamento sostenibile, responsabile, etico, tradire la fiducia del pubblico.

Fatta questa doverosa premessa, l’Italia negli ultimi tre anni (tra 2012 e 2015) ha visto un crollo dei principali indicatori della Business Ethics, in termini di risorse e strumenti dedicati al suo sviluppo. A rivelarlo è la Fondazione Sodalitas che riprende una ricerca “Ethics at Work”, condotta dall’IBE-Institute of Business Ethics, un istituto fondato a Londra nel 1986 per promuovere l’etica nel mondo degli affari.

I dati sembrano così confermare che c’è ancora molto da fare per convincere le imprese che la funzione dell’etica non è solo una scelta morale ma una geniale opera di marketing e comunicazione. “Dalla capacità di adottare criteri etici di gestione e di comportamento dipende la possibilità stessa per l’azienda di crescere e continuare ad esistere nel tempo e porta benefici sia alle stesse imprese sia ai consumatori”, ha dichiarato Carlo Antonio Pescetti, Consigliere Delegato di Fondazione Sodalitas.

Tuttavia, segnali positivi in questa direzione arrivano dall’incontro che Papa Francesco ha avuto con Confindustria (la prima udienza in 106 anni di storia), per ricordare a più di settemila imprenditori che le imprese devono prendere le proprie decisioni in quanto ritenute giuste e non in quanto vantaggiose. “Occorre evitare che la dignità della persona venga calpestata in nome di esigenze produttive, che mascherano miopie individualistiche, tristi egoismi e sete di guadagno. Rifiutate le scorciatoie delle raccomandazioni e dei favoritismi, e le deviazioni pericolose della disonestà e dei facili compromessi”. Il Pontefice ha invitato le imprese a coinvolgere le famiglie, gli anziani, troppo spesso scartati come inutili e improduttivi, e i giovani, che, “prigionieri della precarietà o di lunghi periodi di disoccupazione, non vengono interpellati da una richiesta di lavoro che dia loro, oltre a un onesto salario, anche quella dignità di cui a volte si sentono privati”.

In attesa che le parole del Pontefice riescano a dare alle imprese quella scossa morale a cui ha fatto più volte riferimento il Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, si potrebbe incentivare l’utilizzo di strumenti a supporto dei comportamenti etici.

“Rispetto agli altri Paesi europei, in Italia emerge una situazione incoraggiante per quanto riguarda la diffusione degli strumenti a sostegno della Business Ethics” ha rilevato Guendalina Dondè, Ricercatrice dell’Institute of Business Ethics. “Esistono, però, anche alcuni fattori che, qualora trascurati, potrebbero mettere a repentaglio l’efficacia dei programmi etici aziendali. Un esempio è senz’altro l’incentivo all’utilizzo dei programmi di speak up/whistleblowing”.

Si tratta di un sistema che permette ai dipendenti aziendali di segnalare circostanze di illeciti e comportamenti interni all’organizzazione aziendale che non sono coerenti con i valori aziendali, con la garanzia della protezione della fonte.

Tra le violazioni che i sistemi di Whistleblowing permettono di segnalare più di frequente, a livello dei cinque Paesi presi in esame, UK, Francia, Germania, Spagna e Italia, figurano le molestie (51%), le questioni legate alla gestione delle risorse umane (41%), le frodi e i furti (37%), situazioni legate a salute, sicurezza, ambiente e prevenzione (20%), corruzione e conflitto d’interessi (15%). Dalla ricerca è emerso che solo il 46% delle imprese europee (nel Regno Unito questa percentuale sale all’86%) ha introdotto sistemi di “Whistleblowing”.

In Italia, il nuovo disegno di legge sul Whistleblowing, approvato alla Camera il 21 gennaio 2016, è attualmente in esame al Senato. Eppure nonostante i sistemi di Whistleblowing prevedano policy anti-rappresaglie per chi fa segnalazioni (90%) e il divieto di atti di ritorsione o denigratori nei confronti di chi segnala (72%), nel nostro paese lo strumento è decisamente meno diffuso sia nel settore pubblico che in quello privato. Questo perché gli appartenenti alla comunità lavorativa tendono ad evitare la cooperazione con gli organi vigilanti e le autorità, per non essere giudicati come delatori. “In particolare in Italia, fa notare Guendalina Dondè, “l’art. 2105 del codice civile disciplina l’obbligo di fedeltà che impone al lavoratore di non divulgare informazioni attinenti all’organizzazione, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Il risultato è che solo 4 lavoratori su 10 si preoccupano delle conseguenze di carattere etico e sociale prodotte dalle decisioni imprenditoriali.

Secondo Lorenzo Sacconi, Ordinario di Politica Economica presso l’Università di Trento e Direttore del Centro Inter-universitario EconomEtica, la crisi, associata ad un maggior senso di precarietà e insicurezza verso il futuro, ha ridotto l’attenzione delle aziende verso l’etica. La ricerca dell’IBE, realizzata intervistando un campione pesato di 750 lavoratori appartenenti a organizzazioni di vario tipo, in ognuno dei seguenti 5 Paesi presi in esame, ha infatti rilevato che in Italia, solo il 47% dei lavoratori è convinto che l’onestà sia praticata sempre o frequentemente nella propria azienda (73% nel 2015 contro l’86% del 2012).

Inoltre, il 15% dei lavoratori italiani intervistati avverte pressione a violare gli standard etici della propria organizzazione: il dato è significativamente più alto rispetto a quelli degli altri Paesi analizzati. Ma il dato che più risalta è che i lavoratori del Terzo settore percepiscono l’esistenza di comportamenti non etici più frequentemente rispetto ai lavoratori delle imprese private.


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