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Vi spiego perché la Silicon Valley tifa per il reddito minimo

Dialogo con l'economista Andrea Fumagalli, uno dei principali esperti in Italia di reddito minimo garantito: «Lo spirito della Silicon Valley incarna quella che è stata denominata “l’ideologia californiana”, ovvero “una strana alleanza fra scrittori, hacker, capitalisti e artisti: una proposta come un reddito di base il più possibile incondizionato si colloca perfettamente in questo spirito se viene finalizzato alla promozione della creatività individuale»

di Monica Straniero

Mentre il governo finlandese ha incaricato l’istituto di previdenza nazionale di sperimentare dall’inizio del 2017 il reddito di base con l’obiettivo di approfondire quali benefici questa misura può produrre, negli Stati Uniti YCombinator, uno degli incubatori più famosi della Silicon Valley, ha deciso di finanziare il reddito di base ad un gruppo di persone per 5 anni e assumere un ricercatore per vedere come va a finire. Sulle pagine del Guardian, il sociologo ed esperto di tecnologia Evegny Morovoz, autore del libro, Silicon Valley: i signori del silicio, ha definito l’iniziativa come il cavallo di troia dell'élite tecnologica statunitense per scrollarsi di dosso le accuse di contribuire ad aggravare le disparità di reddito. Ma le cose stanno davvero così o i Big della tecnologia della Silicon valley sono diventati i nuovi paladini del reddito minimo?

Vita.it ne ha parlato con l’economista Andrea Fumagalli, uno dei principali esperti in Italia di reddito minimo garantito.

“Innanzitutto vorrei precisare che sarebbe meglio utilizzare il termine reddito di base sulla falsariga del termine comune inglese "basic income" o spagnolo "renta basica". Questo perché la misura di un reddito il più possibile incondizionato, a livello, individuale, si rivolge a tutti i residenti, indipendentemente dalla cittadinanza giuridica, quindi anche ai migranti, per intenderci. La mossa dell’élite tecnologica statunitense non stupisce per nulla. Lo spirito della Silicon Valley incarna quella che è stata denominata “l’ideologia californiana”, ovvero “una strana alleanza fra scrittori, hacker, capitalisti e artisti della West Coast americana che ha dato vita a una eterogenea ortodossia dell’età dell’informazione, per utilizzare le parole di Richard Barbrook and Andy Cameron in un famoso saggio dal titolo, per l’appunto, L’ideologia californiana, pubblicato nel 1995. È un’ideologia che ha le sue radici nella controcultura hippie degli anni ’60, nella musica psichedelica dei Grateful Dead e negli anni ’80 viene attraversata dalla controcultura cyber, all’interno di quello spirito “libertarian” che ha sempre contraddistinto i movimenti alternativi americani. Lo spirito libertarian è profondamento intriso di anti-statalismo e individualismo ma anche di sperimentazione sovvertiva e libertaria. I grandi guru della rivoluzione digitale (da Steve Jobs a Bill Gates) nascono da questo ibrido. Una proposta come un reddito di base il più possibile incondizionato si colloca perfettamente in questo spirito se viene finalizzato alla promozione della creatività individuale e rappresenta una validità alternativa all’ingerenza statuale nel garantire forme di sicurezza sociale.

In Italia il mondo imprenditoriale ha troppo paura che il lavoratore/trice possa avere dei margini di libertà (non solo di scelta ma anche di rifiuto) su quale attività lavorativa svolgere.

Se l’iniziativa dell’incubatore di start up Y Combinator fosse implementata in Italia, quali risultati potrebbe prevedere?
​In Italia, la nuova frontiera del lavoro è il lavoro gratuito, spacciato per volontario. Siamo quindi nella direzione opposta. La legge 326 sulla riforma quadro del welfare locale prevedeva la costituzione di Osservatori regionali sul Welfare che non sono mai stati avviati. Uno studio serio su questa tematica sarebbe più che mai necessaria, ovviamente non su base volontaria. Gli strumenti legislativi già ci sono. Basterebbe applicarli realmente e non declamarli a parole.

È possibile, come sostengono tra gli altri gli stessi guru della Silicon Valley, che il reddito minimo possa contribuire a risolvere problemi come la perdita di posti di lavoro a causa ella crescente automazione, la precarietà e le disuguaglianze retributive?
Riguardo all'automazione come causa strutturale di perdita di posti di lavoro, penso che una risposta esaustiva possa essere trovata al seguente link. Invece in merito alla questione della precarietà, è la condizione tipica del lavoro nel capitalismo moderno: una precarietà che attraversa tutti gli ambiti della vita, quindi una precarietà esistenziale e non solo lavorativa, al cui interno la contrattazione individuale mette a nudo tutte le contraddizioni e lo sfruttamento del rapporto di lavoro capitalistico. Tra gli effetti negativi della condizione precaria, uno dei più importanti è l’effetto di dumping sulle retribuzioni, a seguito della ricattabilità che tale condizione impone se non si è protetti – come in Italia – da un adeguato ombrello di sicurezza sociale. Ne consegue un aumento della disuguaglianza distributiva e di conseguenza un effetto negativo sulla domanda di consumo che penalizza la crescita economica. Una misura come il reddito di base contrasta questa tendenza. Non solo. Oggi il processo di subordinazione effettiva della condizione lavorativa alle esigenze di valorizzazione di un capitalismo governato dalla finanza e dalle grandi imprese transnazionali è di gran lunga più pervasivo e dirompente di quanto non lo fosse ai tempi dell’operaio massa nella grande fabbrica fordista. In questo quadro, il reddito di base svolge la funzione di reddito primario, ovvero remunerazione di quella capacità produttiva e di quel tempo di vita produttivo che oggi non vengono certificate nelle relazioni contrattuali (anzi, vengono negate con la retorica dei “fannulloni”). In sostanza, il reddito di base non è assistenza e in quanto reddito primario deve per forza essere incondizionato (chi lo percepisce, infatti, “ha già dato”). Inoltre remunerando stabilmente (e non saltuariamente, come avviene oggi in condizioni precarie) si favorisce un aumento della produttività e quindi anche dei profitti. Ed è ciò che la Silicon Valley vuole. In Italia, tale posizione difficilmente potrà essere presa in considerazione, dal momento che il mondo imprenditoriale ha troppo paura che il lavoratore/trice possa avere dei margini di libertà (non solo di scelta ma anche di rifiuto) su quale attività lavorativa svolgere.

Ma allora che tipo di riforme dovrebbe avviare lo Stato per favorire l'introduzione del reddito di minimo?
Checché ne dica il governo che afferma di fare riforme bloccate da decenni, le riforme realmente necessarie non vengono prese in considerazione. La principale riforma di cui abbisogna l’Italia è una riforma dello Stato sociale in direzione di quello che noi, neo-operaisti, chiamiamo “Commonfare” o “welfare del comune”. Si tratta di un sistema di welfare fondato su due pilastri: l’accesso libero e gratuito ai beni comuni materiali (acqua, energia casa, trasporti) e immateriali (sanità, istruzione e formazione, conoscenza, arte, cultura) da gestire in modo autorganizzato o centralizzato a seconda dei casi e l’erogazione di un reddito di base il più possibile, incondizionato, dato ai residenti (e non solo ai “cittadini”), su base individuale (e non familiare), il cui livello è definito in termini relativi e assoluti, comunque superiore alla soglia di povertà relativa (ad esempio il livello di reddito mediano), finanziato come quota della ricchezza sociale, quindi tramite la tassazione ai diversi livelli federali e statali. In particolare se il reddito di base è reddito primario e non assistenziale, esso deve essere finanziato come quota del PIL nazionale, ovvero dalla tassazione diretta, e non dai contributi sociali. Ciò richiederebbe una riforma della struttura degli ammortizzatori sociali, quanto di più iniquo e distorto ci sia oggi in Italia, con l’intento di costituire un unico intervento di sostegno al reddito (così da colmare anche l’attuale gap con l’Europa), definendo una sorta di “road map” che in un intervallo temporale predefinito, diciamo di tre anni, porti all’unificazione delle casse integrazioni, dei sussidi di disoccupazioni, dell’Aspi, della mini-Aspi, ecc,


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