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Cooperazione & Relazioni internazionali

Idomeni chiama Bruxelles: qualcuno risponde?

C’è una cosa che i promotori delle espulsioni di massa e delle chiusure delle frontiere non capiscono proprio, anche perché non si sono mai sognati di provare a parlare con almeno uno di questi disperati: nessuno lascia la propria terra a cuor leggero, e la maggioranza delle persone che oggi ci chiedono protezione non vede l’ora di poterci tornare, quando le condizioni saranno cambiate.

di Marco Ehlardo

Quelli che oggi, dopo gli attentati di Bruxelles, tornano a chiedere la chiusura delle frontiere a tutti i migranti, compresi i rifugiati, dimostrano o di non averci capito ancora niente o di giocare scientemente con la nostra pelle per i loro interessi politici personali e di partito.

Dall’inizio della guerra in Siria (che non è certo quando sono intervenuti gli USA e la Russia, cioè quando i nostri media si sono accorti di quel conflitto) lo scontro tutti contro tutti tra Assad (sostenuto da Iran e Russia), i ribelli filo Turchia e Arabia Saudita (con dietro USA e UE) e l’IS ha causato migliaia di morti e milioni di profughi, sia interni che esterni. Solo una parte limitata di siriani è riuscita a raggiungere le coste della Grecia, anche lì con un pesante tributo di morti. E quelli che arrivano possono raccontarci cosa significa vivere in posti dove la propria sicurezza, la propria vita, è a rischio ogni giorno.

Chi è fuggito, soprattutto dalle zone della Siria (o dell’Iraq) controllate dall’IS, avrebbe potuto piuttosto arruolarsi con loro, e partecipare alla delirante campagna contro chiunque non la pensi come loro (ossia noi, ma anche la grande maggioranza dei popoli arabi e islamici). Non lo hanno fatto. Hanno deciso, invece, di venire a cercare protezione proprio da noi; in un certo modo cercando un’alleanza comune contro il cosiddetto califfato.

Certo, tra questa massa di persone potrà sempre esserci qualche infiltrato, così come tra la massa di onesti lavoratori italiani emigrati in Europa o negli USA si nascondevano anche mafiosi, camorristi e ndranghetisti; ma nessuno si è mai sognato di equiparare tutti i primi ai secondi (e a chi lo faceva davamo tranquillamente del razzista). Cosa hanno trovato all’arrivo in Europa questi nostri potenziali nuovi e preziosi alleati? Un continente diviso, che li considera un peso, che alza muri, che li relega in condizioni di vita estreme come nei campi di Calais e Idomeni.

Oppure che si accorda per deportarli in Turchia, che è proprio uno dei Paesi maggiori responsabili del conflitto in Siria, e dunque dei morti e dei profughi che quel conflitto ha creato e continua a creare.

C’è una cosa che i promotori delle espulsioni di massa e delle chiusure delle frontiere non capiscono proprio, anche perché non si sono mai sognati di provare a parlare con almeno uno di questi disperati: nessuno lascia la propria terra a cuor leggero, e la maggioranza delle persone che oggi ci chiedono protezione non vede l’ora di poterci tornare, quando le condizioni saranno cambiate. Ergo sarebbe nostro interesse accoglierli, trovare i punti e i valori che ci accomunano, costruire un’alleanza (su basi paritarie, questo sia chiaro) che sarà fondamentale negli anni a venire, formare professionalmente persone che possano ridare un futuro ai loro Paesi una volta tornati a casa.

Perché se ti trovi in un deserto in cui non hai nulla, ringrazieresti anche Hitler se ti offre da bere. E in qualche modo gli al-Baghdadi & Co. fanno leva proprio su questo. Dunque, in definitiva, andrebbe informata l’opinione pubblica di come queste posizioni di estrema chiusura siano paradossalmente un pericolo grave per la nostra sicurezza. Perché spingeranno ancora più persone a pensare che se l’Europa è questa, tanto vale seguire chiunque voglia combatterla.

E se i politici italiani ed europei non se ne rendono conto presto, si candidano al poco ambito premio di reclutatori dell’anno per IS et similia.

Immagine in copertina: ANDREJ ISAKOVIC/AFP/Getty Images


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