Welfare & Lavoro

Dopo di noi: l’innovazione nasce dalla contaminazione

La legge sul dopo di noi si avvia all'atto pratico, ma ancora non c'è chiarezza sui criteri che le varie regioni stabiliranno per accedere al fondo. Ma qual è la strada per realizzare davvero quell'inclusione che la legge ha per obiettivo? Mettere in contatto soggetti e comunità che storicamente non sono (quasi) mai venute a contatto: polisportiva, compagnia teatrale, biblioteca... «Non basta più raccontarsi, c’è bisogno di ascoltare e raccontare le storie degli altri». Ecco l'invito di un genitore.

di Pino Moscato

Grazie alla legge sul “dopo di noi”, il tema dell’inclusione è di nuovo alla ribalta, anche se tuttavia non se ne parla mai abbastanza, ma questa non è una novità. Questi temi sono sempre nel cuore dei familiari che vivono in prima persona il problema della disabilità e che fortunatamente per molti sono una minoranza.

In genere il nocciolo di questo tipo di provvedimenti riguarda sempre l’erogazione di finanziamenti. I politici di fronte a queste iniziative governative, sono sempre pronti a dire la loro fondamentalmente su "chi" deve manipolare questi soldi: le assicurazioni private? Lo Stato? Gli enti locali? Le fondazioni? Le associazioni? È in questi meandri che i politici si esprimono, e in generale gli umili cittadini, io tra loro, non possono che fidarsi di chi più o meno li rappresenta.

L’altra questione riguarda gli obiettivi di questa legge. Una buona interpretazione dell’obiettivo generale di questa legge mi pare la seguente: «l’obiettivo del provvedimento è garantire la massima autonomia e indipendenza delle persone disabili, consentendogli per esempio di continuare a vivere nelle proprie case o in strutture gestite da associazioni ed evitando il ricorso all’assistenza sanitaria».

La cosa più importante è quella di fare in modo che le eventuali cure vengano svolte in spazi più umani: dai familiari e dalle associazioni, specialmente quelle che lavorano per l’autonomia dei disabili all’interno di piccoli spazi-comunità. Non sola assistenza, ma nemmeno sola autonomia e indipendenza, perché a fronte di disabilità molto gravi e di interventi specifici permanenti, il provvedimento assume il suo vero senso nelle parole “dopo di noi”: la cura del disabile grave dopo la morte dei genitori.

E prima cosa accadeva? Quando moriva il genitore del disabile grave, cosa accadeva? Io, pur non avendo molta esperienza (non sono ancora morto e ancora riesco ad occuparmi di mio figlio, quando morirò forse ne saprò qualcosa di più…), immagino che il povero disabile grave rimasto solo, o veniva assistito in ospedale o da qualche ente benefico come il Cottolengo, di solito più religioso che laico, sostenuto insomma da una pratica basata sul volontariato, se non a costo zero, quasi. Da oggi non dovrebbe essere più così, ci sono dei fondi.

Il punto fondamentale è la modalità di accesso a questo fondo, modalità che è tutta da vedere e per la quale le varie regioni immagino si stiano muovendo usando metodi e approcci diversi, spesso non dichiarati in termini di programma e di proposte. Ecco, io vorrei fermarmi qui su questo punto. Perché metodo e approccio politico sono dettati anche dagli stili dei partiti che governano regioni ed enti locali, approcci diversi addirittura degli stessi partiti che operano in contesti locali diversi. Non posso e non voglio giudicare e per dire la mia mi affido alle belle parole di quella canzone di De Gregori che dice «la storia siamo noi, nessuno si senta offeso/Siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo».

Dunque. Partendo dalla filosofia della norma, che «è volta a favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone con disabilità», possiamo finalmente porci la fatidica domanda: ma quali sono (o saranno) i criteri per accedere a questi finanziamenti? La legge di per se è buona senz’altro, è di fatto un intervento storico, quasi di pari peso alla legge sull’integrazione scolastica della fine degli anni settanta che tanti paesi ci invidiarono (anche se quella legge è ormai vecchia e sarebbe da rifare). Insomma non credo ci si debba girare troppo intorno. Gli obiettivi sono due: garantire l’assistenza e l’inclusione. I modi per realizzarli passano attraverso gli enti privati e non attraverso gli enti pubblici, ognuno sceglierà l’ente che più gli piace.

Ma quali sono (o saranno) i criteri per accedere a questi finanziamenti? Ecco, io vorrei fermarmi qui su questo punto. Perché metodo e approccio politico sono dettati anche dagli stili dei partiti che governano regioni ed enti locali, approcci diversi addirittura degli stessi partiti che operano in contesti locali diversi. Non posso e non voglio giudicare e per dire la mia mi affido alle belle parole di quella canzone di De Gregori che dice «la storia siamo noi, nessuno si senta offeso / siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo».

L’ho detto prima, non sono qui a giudicare questa legge, per giudicarla ci vorrebbero nozioni di politica che certo io non ho, ma una visione ce l’ho: quella che vede la necessità di investire sulla cultura dell’inclusione. Non si tratta, attenzione, di alimentare la cultura del “volontario” che entra in contatto col disabile, no non si tratta di questo. Quel tipo di cultura, quella del volontariato, che trovo assolutamente nobile oltre che necessaria, si identifica (almeno storicamente) con l’assistenza. Investire sull’inclusione vuol dire introdurre occasioni che ci danno l’opportunità di esercitarci a vedere l’altro, non solo perché “questo altro” è debole, ma anche e soprattutto perché è semplicemente diverso da noi.

La cosa più importante è creare istanze di inclusione perché con esse si può creare quella cultura di solidarietà di cui sinceramente sento tanto la mancanza in questo periodo storico

Qualcuno direbbe che questa è un’utopia. No non è un’utopia, al massimo può essere pigrizia per qualcuno il porsi qualche domanda in più. La cosa più importante è creare istanze di inclusione perché con esse si può creare quella cultura di solidarietà di cui sinceramente sento tanto la mancanza in questo periodo storico. C’è molto da fare perché i tempi sono cambiati, i soldi sono pochi e quelli che ci sono bisogna spenderli bene e farli fruttare. Non è più il tempo della distribuzione a pioggia o ancor peggio, arbitraria delle risorse, ci vogliono progetti fatti bene e non semplici slogan, ci vogliono idee da mettere in pratica dentro lo sport, dentro la cultura e dentro la scuola, dentro il mondo del lavoro e dentro il tempo libero. Per costruire criteri per la realizzazione di questi progetti, mi permetto di fare un invito alle istituzioni: mettere in gioco e a confronto organizzazioni e comunità che storicamente non sono (quasi) mai venute a contatto.

La polisportiva che incontra le varie associazioni che si occupano di disabili per dare loro la possibilità di condividere lo sport con i non disabili. La compagnia teatrale professionale che include nei propri spettacoli attori disabili. Mostre collettive di arte, pittura, scultura, fotografia realizzate da disabili e non disabili. La biblioteca comunale che promuove semplici percorsi di ricerca e dibattito sul tema della diversità. La scuola che mette a disposizione i propri locali e diffonde al suo interno iniziative di inclusione al di fuori dell’orario scolastico, perché la scuola ricordiamolo, è anche centro civico. Percorsi di inclusione nel mondo del lavoro che potrebbero essere promosse all’interno delle stesse istituzioni, percorsi che vedono i disabili fare lavori utili: dal giardinaggio agli uffici del comune, dal parrucchiere ai bar ristorante nei centri commerciali. Sono necessari progetti che programmano a breve, medio e lungo termine queste istanze di inclusione negli ambiti dei quali l’inclusione si concretizza davvero.

La polisportiva che incontra le associazioni che si occupano di disabili per dare la possibilità di condividere lo sport con i non disabili. La compagnia teatrale professionale che include nei propri spettacoli attori disabili. Mostre collettive di arte, pittura, scultura, fotografia realizzate da disabili e non disabili. Percorsi di inclusione nel mondo del lavoro che potrebbero essere promosse all’interno delle stesse istituzioni e che vedono i disabili fare lavori utili: dal giardinaggio agli uffici del Comune, dal parrucchiere ai bar ristorante nei centri commerciali.

Non si sta partendo da zero, ci sono diverse esperienze che lavorano verso questa direzione, ne voglio citare qualcuna tra quelle che seguo e che conosco più o meno direttamente: Integra Sport 2013 ASD Onlus, AID Onlus, LaboratorioTeatrale Integrato Piero Gabrielli, Un goal per l’inclusione sociale, Milleluci Café, i progetti ASI, ASD All Stars Arezzo Onlus, Il liceo scientifico Guglielmo Marconi di MilanoCi sono già molte esperienze che possono indicare su quali presupposti percorrere la strada del confronto: non basta più raccontarsi, c’è bisogno di ascoltare e raccontare le storie degli altri.

Giuseppe Moscato è un docente della scuola primaria. Ha da sempre fatto ricerca applicata sui temi dell'innovazione scolastica, prima a Roma al laboratorio audiovisivo del prof Roberto Maragliano e da 11 anni presso INDIRE, dove presta servizio in posizione di comando. È genitore di un ragazzo di 12 anni con Sindrome di Down e da due anni è impegnato sui temi dell'inclusione sociale delle persone disabili​. In foto, Giuseppe Moscato e il figlio Damiano.


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