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Il mio dialogo con Van De Sfroos

Ieri sera a Lecco, nell'ambito dei “Dialoghi di Vita buona”, promossi dall'arcivescovo di Milano, Angelo Scola, una tappa di un dialogo tra Van de Sfross e Aldo Bonomi che racconta tutte le sue scoperte nell'incontro con Davide il cantautore laghée

di Aldo Bonomi

Una sala completamente gremita in tutti i suoi 400 posti, con molta gente in piedi, quella dell’Auditorium della Camera di Commercio di Lecco che ha ospitato i “Dialoghi di vita buona – Lecco, cosa fa una città?”. Alla loro prima “uscita” da Milano, i “Dialoghi” sono stati accolti con sincero interesse dai cittadini.

Dopo un breve filmato, hanno preso la parola alcuni protagonisti della vita sociale, religiosa e imprenditoriale lecchese. Il finale è stato affidato al dialogo tra Aldo Bonomi e Davide Van De Sfroos e dedicato a Lecco, città meticcia e a Manzoni, rapper suo malgrado

CARO DAVIDE

Lo so che nel tuo lago di Como non ci sono i salmoni. E nemmeno “il mostro del film dell’oratorio” di una tua canzone. Ma tu, con il tuo progetto peripatetico Terra e Acqua di poetica inchiesta su ciò che resta della comunità originaria, del resta sempre lassù il paese di Cesare Pavese, hai iniziato la risalita a salmone verso le terre alte della mia Valtellina. Con i piedi nell’acqua, come scrive un altro della Tremezzina, l’amico Cecco, che ha sempre avuto la testa nel mondo. Non è forse lui uno dei laghee, quello che va a Milano per fare la rivoluzione in una tua ballata tragica… E non so se conosci anche Giovanni Cocco che sta lì a Lenno e che ha scritto anche lui del mondo nel suo libro “La caduta”. Risalendo verso le montagne vi ritrovate a Morbegno con Stefano Valenti, quello del “La Fabbrica del panico” e di “Rosso nella notte bianca”. Siete per me tu, Cecco, Cocco e Stefano segno di una letteratura e di una poesia delle terre del margine, delle aree tristi che finalmente dà voce ai senza voce. Una letteratura del confine avrebbe detto Sciascia dal suo confine Mediterraneo, che finalmente si collega a quella letteratura aspra e disincantata del pensiero critico dell’arco alpino dei Durrenmat, Walser, Bernhard…..che si collega a quella saggistica e sociologia critica dell’amico Remigio Ratti animatore di Coscienza svizzera.

AMICI A PRIORI

Noi due ci siamo scoperti amici a priori, quel sentirsi in-comune senza conoscersi, quando, sentendo in tv un tuo concerto sponsorizzato in Rai dal leghismo che si fermava al dialetto lombardo delle tue ballate, mi permisi di scrivere sul Corriere che per me eri il proseguimento con altri linguaggi, mezzi e suoni dei cantautori che avevano formato la mia generazione (Guccini, De André, Vecchioni, De Gregori…). Le tue ballate raccontavano il venire avanti di una moltitudine del territorio, venivano dal contado, più dai campi che dalle officine, dalle terre del margine più che dalla fabbrica e dalla città. Merito di Ferruccio De Bortoli che intuì e ti diede spazio sul e nel Corriere che mi pare abbia lanciato anche i tuoi cd.

MICROCOSMI

Ed oggi ci ritroviamo assieme a raccontare “Microcosmi”, tu dalle pagine domenicali del Corriere Lombardia ed io su Il Sole 24 Ore. Continuando a cercare per continuare a capire il sentire, il racconto del territorio. Dalla città infinita Pedemontana, al lago, alle terre alte, alla metropoli che viene avanti: insomma il molteplice di una Lombardia in metamorfosi. Le amicizie a priori, risolte nell’incontro, scavano ed inducono a continuare. Ci siamo ritrovati nella tua risalita al mio paese, Tresivio in Valtellina, per una giornata particolare della tua inchiesta peripatetica. E’ stato un gran tour, senza scomodare Ghoethe, nella microstoria. Che induce ad “andare avanti con il capo rivolto all’indietro” che permette di vedere in quei microcosmi frammenti, macerie, che portano alla riflessione sulla grande storia, il salto d’epoca dell’oggi.

LA SANTA CASA

La guerra dei trent’anni, 1620 il “Sacro Macello della Valtellina” protestanti cercati e uccisi casa per casa. Riforma e Controriforma che si scontrano sui confini alpini. Dietro, come sempre, la geoeconomia e la geopolitica, Spagna e Francia verso le Tre Leghe dei Grigioni svizzeri. Nel 1646 quasi a sancire la liberazione del territorio, imponente, potente, incombente nel suo barocco non da chiesetta di montagna, a Tresivio, che è in mezzo alla valle, viene eretta LA SANTA CASA fantasmagorica riproduzione della Santa Casa di Loreto portando così sul confine la sacralità di Maria negata dalla Riforma. Ci diciamo, io e Davide, guardando il Calvario, altra collina del paese che rimanda al Golgota, che la religiosità popolare nel vedere da una parte la Madre e dall’altra il sacrificio del Figlio, ha poi stemperato la religione come ideologia nelle processioni della Madonna Nera a settembre e nel Venerdì Santo con la Via Crucis (a proposito ricordi la canzone del Venerdì Santo di Guccini) che ogni anno percorre il colle. Si sono così ricostruite dal basso ed elaborati lutti e tragedie arrivando alle forme di convivenza dell’oggi. Questione dell’oggi, con le chiese aperte ai riti cattolici ai mussulmani dopo Rouen. Riflettiamo così sull’Europa che ha perso il senso del tragico, la propria ombra e non era necessario riandare sino alla guerra dei Trent’anni, al Sacro Macello della Valtellina. Bastava capire la tragedia della ex Jugoslavia con minareti e chiese ortodosse bruciate dagli uni e dagli altri quando la comunità si fa maledetta in nome del sangue e del suolo e delle religioni. Religiosità del sentire, aliena dai poteri, che ha sempre attraversato la dogana, così si chiamava la rubrica del servita Camillo De Piaz su un settimanale locale. Camillo attraversava da Tirano a Poschiavo la frontiera per incontrare abitualmente il pastore protestante e il letterato della Mitteleuropa Hildesheimer che era arrivato sul nostro confine dalle città anseatiche. Camillo stava sul confine, lo viveva come soglia, non come faglia. Perché le differenze sono ben più tra Roma e Coira di quanto sono le empatie della città- retica che attraversa il Bernina.

I SUSSURRI

Per capire, per avvertire i sussurri profondi dove si rompono le forme di convivenza e i confini ed i territori più che luoghi soglia diventano luoghi faglia, occorre un’antropologia dei sussurri. Una poetica che ascolta con l’orecchio a livello del suolo i sussurri che diventano grida e rancore. Per questo partendo dalle tue ballate, da De Andrè dei luoghi, pensando alla sua rielaborazione di Spoon River passiamo dal cimitero. Per “cantare” una lapide di sussurri. Sette giovani vite di paesani contrabbandieri trucidati dalla milizia confinaria nel febbraio del ’45. C’è scritto “mentre se ne andavano per le propprie faccende”, con un errore da matita blu che rimanda a quella pudicizia degli ultimi nel rivendicare l’illegalità necessaria che è stato il contrabbando sui confini nelle comunità di sopravvivenza. Ed allora era sopravvivenza. La guerra sarebbe finita due mesi dopo. Una piccola tragedia in un borgo alpino nella grande guerra mondiale. Spero che troveranno il loro Spoon River nel cantautore che si è dato un nome che sembra olandese, ma altro non è quelli che vanno di frodo oltrepassando i confini di una Europa delle nazioni e della guerra delle nazioni che pare non aver imparato nulla, visto che sorgono nuovi muri, questa volta non solo per le merci, ma per migranti e profughi. Alzando lo sguardo dalla lapide del mondo dei vinti ci appaiono i “sepolcri” dei nobili con tanto di storia dei potenti di un tempo Beccaria, Guicciardi, Besta….a loro ci ha già pensato il Foscolo. Ma la storia del potere, la sua microfisica non è secondaria. Nel palazzo del Comune ben ristrutturato oggi, era dei nobili Gucciardi, vi è un affresco recuperato che mostra un castello che prima della chiesetta sul Golgota faceva del Calvario una fortezza in quella storia che il grande Dante racconta tra guelfi e ghibellini. Altra faglia storica di cui ci sono tracce essendo che Tresivio era la sede del potere del vescovo di Como nel dejà vu dello scontro tra gli interessi economici-politici.

DISLIVELLI

Guardiamo indietro per guardare avanti, anche per evitare il torcicollo della storia, che serve per ricordare il futuro. Ed è bene tornare al presente storico, al borgo, al paese. Al territorio, alla sua morfologia che fa del paese alpino altro dai borghi dell’Italia borghigiana nell’Italia di Mezzo con le sue mura, le sue torri, con dentro le sue contrade. Qui sembra di essere senza centro nel suo essere comune polvere che si fa polvere dell’abitare seguendo i dislivelli, direbbe Dematteis, della natura e del ciclo agro-silvo-pastorale della civiltà materiale. L’Adda che scorre nelle terre basse, i meleti ed oggi anche gli ulivi, la vigna e il castagno, il larice, il pino, l’alpeggio. Il tutto in un ciclo di transumanza verticale e di prossimità dal basso verso l’alto seguendo il ciclo dell’agricoltura di montagna, dei lavori segnati dalle stagioni che hanno caratterizzato l’essere paese e l’abitare. Ne tengano conto geometri ed architetti da villette a schiera e seconde case simil Bolzano, che mangiano territorio con le tapparelle che sostituiscono le persiane di un tempo, che come canta il nostro, sono “la poetica della finestra che sbatte le ali ma non può volare”.

LE CONTRADE

Siamo partiti dal basso per capire. Contrada San Tommaso con la sua chiesa romanica, con il suo piccolo borgo attorno declinato nelle pieghe della pianura che sale, ma non è ancora collina. Sobrietà del costruire e di una religiosità delle origini altro dal Barocco incombente della Controriforma e dai palazzi del potere, di un centro fatto solo di funzioni di comando. La chiesetta della contrada dove si sale, Piedo, e siamo già dove finisce la vigna ed inizia il castagno, é piccola ed è un tutt’uno con il vecchio nucleo fatto di vicoli talmente stretti dove anche se uno è ubriaco non riuscirebbe a cadere, che, al di là della battuta, dà il senso dell’abitare e del tenersi assieme nella comunità della sopravvivenza. Quando come scarsità e valore, nelle nostre banche locali si quotava il prezzo e la raccolta delle castagne. Per arrivare poi alla contrada Sant’antonio, là, sul limite dove inizia il bosco e poi più su il pascolo. Qui faceva premio il valore degli usi civici del territorio. Tant’è che il paese è sempre stato diviso e i dislivelli si facevano faglia. In alto quelli dell’Acqua, denominazione che svela la differenza con quelli che stavano in basso, nella terra che rendeva di più. Chi pensa con retorica e nostalgia alla comunità ne tenga conto. Erano comunità spezzate dalla fatica e dalle differenze nella scarsità. Quasi la montagna disegnasse una lotta di classe, mai detta, tra i poteri, i saperi, i signori, quelli del vino e delle mucche, quelli delle castagne, del bosco e dell’alpeggio. Era una vita agra.

IL MAL SOTTILE

E’ stato una lunga deriva da abbarbicati nei dislivelli da cui ci ha emancipato, portandoci nella modernità, rompendo il ciclo agro-silvo-pastorale, il mal sottile delle terre basse, giù dopo Colico, oltre il lago verso l’Italietta e la Sicilia lontana. L’Italietta aveva già chiamato il paese, il comune polvere, alla guerra delle Alpi con la Mitteleuropa di un impero in dissolvenza. Tra le due guerre, negli anni della dissolvenza della Belle Epoque e della tragedia della Guerra delle nazioni, arrivarono da Milano e non poteva che esser così, i sanatori per la tubercolosi: l’Alpina e Prasomaso. Collocati ai mille metri delle pinete con aria ed acqua, risorse quanto la penicillina della clinica. Portarono padiglioni stile Liberty, l’acquedotto dagli alpigi alle contrade, la strada con la corriera che passava due volte al giorno per paesani e paesane al lavoro nelle economie dei servizi per i sanatori. Una discontinuità dal ciclo agricolo dei dislivelli. Opportunità e paura. Come ogni salto per comunità rinserrate, communitas ed immunitas direbbe il filosofo Roberto Esposito. Si lavorava al fianco e per i malati, ma si insegnava ai bimbi quando si passava davanti ai sanatori per andare all’alpeggio a non fermarsi e a coprirsi il respiro. Non è stata un’epopea da montagna incantata nella Davos di Thomas Mann. Anche se nella dissolvenza del ciclo storico, per i soggetti semplici del paese, i sanatori hanno lasciato traccia del salto d’epoca raccontato da Thomas Mann nel suo libro dove si scontrano il gesuita Naphta e l’illuminista Settembrini.

SOCIOLOGIA DELLE MACERIE

Ciò che rimane oggi del patrimonio Liberty ai mille metri è una sociologia delle macerie, per dirla con Simmel. Ci siamo andati dentro. Davide ha sussurrato la canzone-poesia dell’infermiera e siccome le macerie, come i paesi abbandonati raccontati dalla Tarpino, interrogano sul passato mettendoci dentro la storia, ma anche l’interrogarsi sul futuro che verrà, abbiamo visto tracce del possibile. Villette a schiera e speculazione delle terre basse sempre più alla ricerca tra mutamenti climatici e crisi ecologica di terre alte? O patrimonio da recuperare per uso sociale adeguato ai tempi, soggiorno per anziani che lasciano le città, luoghi per i turismi montani che vengono avanti, altro dal ciclo della neve negli impianti di risalita? Facendo un po’ il sociologo delle macerie ho sussurrato a Davide, sperando non ci senta Salvini, che forse il destino della montagna disincantata di Alpina e Prasomaso sarà quello, che già avviene sottotraccia in paesi abbandonati della Calabria o in abbandono nell’Appennino Emiliano, di essere riabitata e fatta rinascere da migranti e profughi come ne ho discusso spesso a Paraloup con Marco Revelli ed Antonella Tarpino nell’ambito della loro scuola del ritorno.

TERRE ALTE

Poi l’ultimo balzo verso la Rogneda, l’alpeggio della comunità oltre i duemila. In elicottero siamo atterrati in una cartolina svizzera: mucche al pascolo, maiali grufanti, caseificio con tanto di vendita di prodotti tipici…Io lo ricordavo ormai abbandonato. Non si caricava più la montagna, era finito il ciclo agricolo, in paese non c’è più una mucca. Il sindaco con motivato orgoglio, era la visita a cui più teneva, ci racconta dei fondi Interreg e regionali per ristrutturare stalle e cascine con anche possibilità di agriturismo d’alta quota e della sua fatica nell’accorpamento degli usi civici. Anche l’alpe era divisa tra quelli dell’Acqua e quelli del primo dislivello. Comunità spezzata, risolta con un referendum irto di localismi e di quesiti antichi: gli usi civici rimandano alla proprietà o al diritto d’uso individuale? Adesso il Comune mette a bando di gara ogni anno l’alpeggio ed arrivano quelli delle terre basse, là dove l’Adda entra nel Lago a caricare i monti. Anche le mucche volano e fanno la risalita a salmone nella montagna dell’artificio che dopo il non più del ciclo agricolo locale, delinea un non ancora possibile.

GLI SPAESATI

Guardando il dietro della cartolina svizzera, oltre l’artificio ci stanno sempre le persone, abbiamo conversato con le due famiglie che per tre mesi caricano l’alpe venendo da Buglio. So che tu Davide, in preda al furore dei luoghi, ci hai scritto una traccia di ballata titolata gli “spaesati”. Quelli che pur essendo rimasti letteralmente senza paese, la comunità originaria del ciclo agricolo, sono resilienti e reinvestono nell’ipermodernità sociale i riti lenti della civilizzazione. Figure poetiche del moderno che noi sociologi chiamiamo i ritornanti, senza dimenticare che come scrisse Simone Weil, l’eterno ritorno ai luoghi per andare oltre lo spaesamento, confrontandosi con il nuovo che avanza, evita il rancore di quelli che sono sradicati e quindi sradicano. Rancore che attanaglia gli sradicati dell’oggi rancorosi verso l’altro da sé. Non mi dispiacerebbe aggiungere a queste brevi note su una giornata particolare con Davide Van De Sfroos la sua poesia sugli spaesati.

SUSSURRI SOGGETTI IPERMODERNITA’

Al termine della giornata particolare immersi ed un po’ inebriati dal paesaggio oltre i duemila, attraversati i dislivelli della microstoria, della grande storia e della dissolvenza della comunità originaria in metamorfosi, con la confidenza dell’amicizia a priori, abbiamo conversato di poesia e racconto tra un cantautore ed un sociologo dei territori tenuti assieme dal continuare a cercare nella coscienza dei luoghi. Siamo partiti dall’antropologia dei sussurri dalle sue prime canzoni scritte con l’orecchio al suolo che percepiva lamenti e spaesamenti del contado e il dialetto come sussurro e voce altra, ma con diritto di voce. Una poetica altra da chi ne ha fatto grida contro l’altro da sé. Poi l’antropologia dei soggetti il suo raccontare figure idealtipiche che partendo da resta sempre lassù il paese, migrano, tornano sconfitti della vita o vanno a Milano nella valle dei semafori dove suonano i citofoni messi al lavoro e confrontandosi con la città infinita che viene avanti. Per finire nell’antropologia dell’ipermodernità confrontandosi con Oga Magoga, nell’apocalisse del salto d’epoca, quelli che io chiamo i flussi del globale, della tecnica che trasforma sussurri e soggetti in Pokemon, interrogandoci sull’ecologia della mente, sulla questione ecologica, sulle migrazioni…. Il tutto ricondotto al continuare a cercare per continuare a capire come andare oltre lo spaesamento all’essere in-comune nella “comunità che viene” nella dissolvenza del non più sempre raccontando sussurri, soggetti, desideri della coscienza dei luoghi.

CIO’ CHE RESTA

E’ una giornata particolare che mi lascia una botta di speranza. Anni fa, scrivendo della mia valle, la definii un’area triste per la sua anomia ed afasia da margine che non sa autocentrarsi criticamente e non sa fare racconto di sé. Mi pareva subire, usando le categorie del libro “Thomas Mann impolitico”, la potenza della kultur intesa come un primo popolo delle terre basse che racconta il secondo popolo delle terre alte. Non mi pareva vi fossero tracce riflessive sulla civilizzazione, intesa come lunga deriva della storia dei soggetti resistenti e resilienti. Non lo direi più. Viene avanti una letteratura di confine, del margine che si fa centro con cantastorie e poeti come Davide, saggisti come Cecco Bellosi e Giovanni Cocco, con i piedi nell’acqua del lago guardano il mondo e la sua caduta, confrontandosi con Stefano Valenti che con i suoi due libri che partono dalla valle, ci porta dentro la storia di montanari che vanno nella “Fabbrica del panico” alla Breda, e dentro il “Rosso della notte bianca” nella resistenza.

UN INVTO A RITROVARSI

Tutti facciamo i conti con quella ipermodernità che avanza nei flussi dialettici tra globale e locale. Fatte di onde lunghe che vissute e sentite a Lenno, nella Tremezzina e a Tresivio non hanno visto solo l’ossimoro del mal sottile come modernità. Ma la risalita del ciclo dell’acciaio con la Falck a Dongo, con tanto di crepuscolo del fascismo a Dongo, la discesa dei montanari alla Breda, l’idroelettrico come ciclo periferico del fordismo con le sue dighe, la turisticizzazione del lago e della montagna. Ed oggi temi che rimandano al futuro delle banche locali, tanto incistate nell’antropologia del risparmio nella scarsità, che si confrontano con la finanziarizzazione dell’economia…. Ed il tema della green economy che fa delle terre alte non più il margine triste, ma un centro da cui guardare, per noi abituati a stare borderline sul confine, ad andar de sfroos, al salto d’epoca geoeconomico e geopolitico che viene avanti. Anche nello spaesamento e nel salto d’epoca, guardando alle macerie di ciò che non è più, occorre tenersi per mano. Verso un altrove, verso un non ancora, avendo coscienza di sé e delle metamorfosi. Sarebbe bello ritrovarsi tra Terra e Acqua, terre alte e terre basse, margine e centro, noi che siamo abituati a star sul confine, magari coordinati da Ferruccio De Bortoli, anche lui transfrontaliero tra il Corriere e il Corriere del Ticino, con Cecco e Valenti che nei loro libri, più di noi fanno scorrere il filo rosso delle classi nel mondo dei vinti. Con un cantautore che partendo dalle tradizioni dei vinti denomina l’apocalisse culturale, che prende nella paura e nell’incertezza Oga Magoga, così come Giovanni Cocco nel suo libro “racconta gli sconvolgimenti che hanno segnato il primo decennio del nuovo secolo… ispirato al libro dell’Apocalisse”, Oga Magoga.

LUNGHE DERIVE E COMUNITA’

Con un’avvertenza. Percorrere il locale, il territorio, evocando la parola pesante comunità in tempi segnati dal rancore e dalle paure ci fa inevitabilmente borderline. Percorrere il crinale evitando holzwege heideggeriani che portano nella selva nera. La letteratura di confine non è una kultur di un primo popolo che racconta un secondo popolo, ma è fatta da cantastorie come noi che siamo dentro i cicli lunghi della civilizzazione. A monito chiudo con due citazioni: uno dal libro di Giovanni Cocco “La caduta” e l’altra dal testo del filosofo Jean-Luc Nancy “La comunità affrontata” in dialogo con Maurice Blanchot. Scrive Giovanni Cocco: “il retroterra culturale, i riferimenti teorici ed il presupposto ideologico del presente volume sono invece da ricercarsi interamente nel dibattito culturale nato in seno ai curatori della rivista Annales degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso che sviluppatisi, nei decenni seguenti, intorno alle diverse generazioni degli storici succedutisi alla guida della celebre rivista. L’originalissima parabola umana ed intellettuale di Fernand Braudel é pertanto da considerarsi il motore primo di questo lavoro”. Scrive Jean-Luc Nancy: “dà da pensare che la comunità di coloro che non hanno comunità (noi tutti, ormai), la comunità inoperosa, non si lasci liberare come il segreto svelato dell’essere-in-comune. Di conseguenza non si lascia comunicare, benché essa sia il comune stesso e senza dubbio proprio perché lo è”.

Foto: Giancarlo Airoldi


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