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Neet: smettiamo di pensarli come vittime, l’obiettivo è renderli protagonisti

Ieri e oggi a Milano si è tenuto il primo convegno nazionale sui Neet. Alessandro Rosina: «È come se i giovani noi li avessimo messi in panchina: non possiamo pensare di spostarli dalla panchina per fare i raccattapalle. Dobbiamo farli allenare, motivarli e metterli in campo, nei ruoli principali. Abbiamo bisogno di dimostrare ai giovani che il Paese crede in loro, non li considera le principali vittime di un paese che va verso il declino ma i principali attori di un Paese che vuole crescere»

di Sara De Carli

«Il problema è dove li becchi? Non sono nel radar delle politiche del lavoro, non sono in giro, sono in casa: come fai a raggiungerli? Dobbiamo trovare strade nuove per andare ad acchiapparli»: così, in maniera franca e diretta, questa mattina Sergio Urbani – direttore generale di Fondazione Cariplo – ha aperto la seconda giornata di lavoro di Neeting, il primo convegno nazionale sui Neet. E ha aggiunto: «Non possiamo permetterci che passino due generazioni prima che riusciamo a fare qualcosa di impattante».

I contorni numerici dei Neet, ovvero di quei giovani che non studiano e non lavorano, sono ormai drammaticamente noti: 2,4 milioni in Italia. Il costo di questo potenziale non utilizzato è – dal punto di vista strettamente economico – pari a 36 miliardi di euro, il 2% del Pil italiano (Eurofound). La nuova indagine “Rapporto giovani”, svolta a ottobre 2016 su un campione di 5200 giovani, scava però in profondità e dice la necessità di disaggregare quel dato, perché dentro i Neet ci sono realtà, condizioni, bisogni e possibilità di attivazione molto diversificate. C’è, per esempio, chi è uscito precocemente dal sistema di istruzione e formazione, ma pure chi ha una laurea: ovvio che i problemi, le aspettative e le strategie saranno diverse per loro.

Intenso l’intervento di Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore del Rapporto Giovani. Eccolo in sintesi.

«Una società cresce quanto più investe sull’adeguato apporto qualitativo e quantitativo delle giovani generazioni. Se il futuro è una casa comune da costruire, i mattoni più preziosi sono le nuove generazioni. Noi però con questi mattoni abbiamo tre problemi: ne abbiamo pochi (denatalità), di questi pochi, molti li perdiamo perché li regaliamo ad altri paesi (expat), di quelli che restano, molti li sprechiamo (i neet). I Neet infatti sono l’indicatore dello spreco del potenziale delle generazioni e in Italia purtroppo questo indicatore raggiunge valori più alti che in altri Paesi.

Perché così tanti? Il punto debole è la transizione tra scuola e lavoro, è lì che si perdono, per motivi vari, dal lato offerta, dal lato domanda e nell’incontro fra domanda e offerta. Serve quindi un sistema che li aiuti a collocarsi al meglio e dia loro la possibilità di una valorizzazione piena. Chi cerca lavoro perché ha da poco finito gli studi è come una luce accesa verde, con il passare del tempo la luce diventa gialla e poi rossa, fievole, con il rischio che non cerchino più perché scoraggiati del tutto, intrappolati nell’area grigia del lavoro sommerso o del non lavoro, bloccati da situazioni familiari: sono fuori dai radar, sono luci spente, la parte scura della luna che nessuno conosce, i più difficili da intercettare e coinvolgere. I neet invecchiano rimanendo bloccati, non aumentano le aspettative di crescita personale (ad es tramite la previsione di uscire da casa entro un anno), c’è la fatica di costruire il proprio percorso di vita: restano semplicemente figli a carico, i giovani da risorsa sono diventati una categoria da proteggere.

Garanzia Giovani ha dato qualche segnale positivo, ma c’è la necessità forte di intervenire producendo risultati concerti, per ristabilire un rapporto di fiducia da parte delle giovani generazioni verso la possibilità di uscire dalla condizione di Neet. Dobbiamo riconvertire i giovani, da costo sociale a risorse attive del paese, da esclusi a inclusi. Il nostro primo obiettivo deve essere quelli di intercettarli e la riflessione sul come fare ancora non è arrivata individuare strumenti efficaci: dobbiamo noi intercettare chi si è perso nel labirinto e rischia di spegnersi, non possiamo aspettare che siano loro a proporsi. L’obiettivo finale non è considerare i giovani come una “categoria svantaggiata” a cui dobbiamo trovare un’occupazione, ma trasformarli di nuovo in risorse attive per il Paese. È come se i giovani noi li avessimo messi in panchina: non possiamo pensare di spostarli dalla panchina per fare i raccattapalle. Dobbiamo farli allenare, motivarli e metterli in campo: non in difesa ma in attacco, nei ruoli principali, per dimostrare che con loro si possono ottenere risultati migliori. Abbiamo bisogno di dimostrare ai giovani che il Paese crede in loro, non li considera le principali vittime di un paese che ve verso il declino ma i principali attori di un Paese che vuole crescere».

Foto J. Eid/Getty Images


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