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Scuola Digitale, anno secondo: 100 milioni in più per il coding

Li ha annunciati il ministro Giannini nell'ambito della tre giorni in corso alla Reggia Di Caserta per festeggiare il primo anno di attuazione del Piano Nazionale Scuola Digitale. Ma come sta andando davvero? Ecco una panoramica delle scuole d'Italia

di Gabriella Meroni e Sara De Carli

Il Piano Nazionale Scuole Digitali compie un anno. Sono state avviate oltre il 65% delle azioni previste, con 500 milioni già investiti dell’1,2 miliardi stanziati. Tremila scuole cono state raggiunte dalla fibra, con 88,5 milioni di euro sono stati utilizzati per il cablaggio delle scuole; 140 milioni sono andati per la realizzazione di ambienti digitali per la didattica integrata, 58 milioni per i laboratori territoriali per l’occupabilità, 28 milioni per aprire 1.800 atelier creativi, 7,5 milioni per le biblioteche scolastiche aperte al territorio, 4,3 milioni per i curricoli digitali. Oggi alla Reggia di Caserta si chiude la tre giorni organizzata per celebrare il primo anno del PNSD: una “festa” con 6.000 fra docenti e studenti, dove sono state raccontate le pratiche migliori e si è lanciato il secondo anno di attuazione del Piano. «In questo primo anno di attuazione, il Piano Nazionale Scuola Digitale ha elevato il tasso di qualità e innovazione nel nostro sistema scolastico, segnando un punto di svolta da cui non si potrà tornare indietro», ha detto il Ministro Stefania Giannini. La tre giorni di Caserta si inserisce nella più ampia “Settimana del PNSD”, che si concluderà il 30 novembre, in cui studenti, insegnanti, presidi e innovatori sono invitati a condividere quanto fino ad ora realizzato e a lavorare per il prossimo anno di attuazione. C’è anche un concorso per ragazzi, #ilmioPNSD, al termine del quale le migliori cinque attività o i migliori eventi realizzati e documentati attraverso un videoclip riceveranno un contributo da utilizzare per la realizzazione di un ambiente per la didattica digitale integrata o per la laboratorialità creativa.

Il secondo anno intanto vedrà uno stanziamento aggiuntivo di «100 milioni per il rafforzamento delle competenze digitali degli studenti», 65 milioni alla scuola del primo ciclo e 35 alla secondaria di secondo grado, annunciato a Caserta dal ministro Giannini: «Ogni studente imparerà a programmare: dal prossimo anno tutte le scuole primarie avranno la possibilità di fare 60 ore all'anno di coding. Un passo necessario per avere tra dieci anni una popolazione di giovani italiani perfettamente alfabetizzati in quello che si chiama il nuovo pensiero critico». Siamo andati "sul campo", per vedere cosa sta cambiando. Ecco il capitolo dedicato al PNSD pubblicato sul numero di VITA dedicato alla scuola che cambia (agosto 2016).

Un miliardo di euro per estinguere la fame digitale di cui la scuola italiana soffriva da tempo. Il PIano Nazionale Scuola Digitale è stato preso letteralmente d’assalto da migliaia di scuole che pareva non aspettassero altro. Le iniziative di maggior successo sono state un bando per il wifi da 88 milioni che consentirà complessivamente la copertura di 20.241 plessi e di 379.960 ambienti scolastici; un altro da 28 milioni per portare laboratori creativi (atelier) con stampanti 3D e tecnologie avanzate nelle scuole del primo ciclo, servito a coinvolgere finora 1.860 istituti (pari a circa un terzo del totale); uno per realizzare 500 biblioteche scolastiche innovative e digitalizzate. Il Piano non ha riguardato solo le strutture, ovvero l’acquisto di computer e altre attrezzature: inutile infatti avere reti velocissime e laboratori degni di Google se poi nessuno li sa utilizzare, o meglio, se poi le metodologie didattiche non cambiano di una virgola. Con il nuovo corso, il ministero ha scelto quindi di nominare 8mila “animatori digitali”, uno per scuola, e altri 24mila componenti dei “team dell’innovazione”, docenti che diventano responsabili per l’attuazione del Piano in ciascun istituto, incaricandosi di istruire i colleghi secondo un modello di formazione tra pari.

«Il digital divide della scuola italiana rispetto a quella europea è stato stimato dall’Ocse in più di 15 anni», osserva Paolo Ferri, docente di Didattica e Pedagogia Speciale all’università di Milano Bicocca. «Ma bisogna dire che il Piano scuola digitale pone le basi per colmare questo divario, attraverso finanziamenti reali e un profondo cambiamento di mentalità: meno hardware, e quindi meno favori alle aziende produttrici, e più investimenti sulla banda, sulle persone e sulla formazione. Le tecnologie devono essere messe al servizio dell’apprendimento degli studenti e della metodologia innovativa degli insegnanti, e non viceversa». Ecco dunque la vera novità: l’introduzione di un «nuovo approccio didattico e metodologico», come spiega il professor Luca Piergiovanni, docente di Lettere all’Istituto Comprensivo di Valmorea, provincia di Como, ed esperto di tecnologie per l’apprendimento, nonché membro del Tavolo tecnico ministeriale che ha materialmente redatto il Piano Nazionale. «In un progetto che ho seguito personalmente nelle province di Como e Varese, per esempio, i social media sono stati utilizzati per insegnare italiano con il metodo TwLetteratura: una comunità di studenti sceglie un libro, lo legge e lo commenta, un capitolo alla volta, in base a un calendario condiviso, “riscrivendolo” su Twitter sotto forma di parafrasi, variazione, commento, libera interpretazione. Alla fine del processo si arriva a un tweetbook, ma soprattutto si stimola l’amore per la lettura e si impara la scrittura sintetica».

Puglia, Ostuni, liceo scientifico L. Pepe: «Questa mattina la signora della segreteria doveva segnalare un problema, ma non sapeva fare lo screenshot. Bisogna saper comunicare, la vera dote degli animatori è questa». Così racconta Paola Lisimberti, professoressa di italiano e latino e animatore digitale della scuola. Il nome è un po’ buffo, ma finalmente con gli animatori digitali (più di 8mila, uno per ogni scuola) si è dato riconoscimento formale ai virus spontanei dell’innovazione. Insieme a loro lavora il team per l’innovazione digitale, che comprende altri tre docenti: il contagio dipenderà dalle reti che si creeranno sui territori. Un esempio? L’#Hack4Dante che ha visto protagonisti i ragazzi del liceo Pepe: «Avevamo tutta la Divina Commedia in tasca, nella chat di Telegram. I ragazzi hanno fatto un’esperienza diretta di commento a Dante, usando la rete come biblioteca, differenziando le fonti e individuando quel- le attendibili. #Hack4Dante è stato possibile perché è nato un team, con competenze professionali diverse, anche esterne alla scuola, che sono un valore aggiunto fondamentale», spiega la professoressa Lisimberti. Lavorare in rete «è “il” cambiamento per eccellenza. Ma ho fiducia: gli insegnanti hanno dimostrato di essere i lavoratori più capaci di cambiare prospettiva» . Daniela Di Donato invece insegna lettere alla scuola secondaria di primo grado G. G. Belli di Roma: «Questo anno ci ha molto stimolati in una identità professionale nuova. Il fatto che nel Piano nazionale scuola digitale sia detto a chiare lettere che l’innovazione va abbracciata è una rivoluzione, mi sento più forte, prima eravamo dei carbonari», ride. Fra gli osservatori c’è chi irride l’«eccitamento digitale» in atto, ma sul campo è fortissimo l’aggancio tra tecnologia e pedagogia: «è questione di avere una visione etica della nostra responsabilità nei confronti dei giovani. Questi ragazzi dovranno fare un lavoro per cui non hanno studiato e ciononostante in pochi giorni dovranno diventare competenti: dobbiamo scardinarci dalle conoscenze e puntare sulle strategie di apprendimento, diverse per ciascuno. Cosa siamo? Forse coach».

Nuovi scenari, una didattica lontana anni luce dalla cattedra sulla predella, la classe in silenzio di fronte e l’insegnante di spalle che scrive col gesso, ma la rivoluzione che in alcune scuole deve ancora arrivare in altre è già realtà, e i risultati la premiano. È il caso dell’Istituto Tecnico Tecnologico Volta di Perugia, che nel 2010 era stato tra le 156 scuole italiane ad aver partecipato al bando sperimentale Cl@ssi 2.0, introducendo strumenti come il registro online e alcuni testi su tablet; innovazioni che sono poi proseguite nel tempo, portando il numero di studenti dai 750 di sei anni fa agli attuali 1650, al ritmo di 350 nuovi iscritti l’anno: «Dal 2017 saremo costretti a introdurre il numero chiuso», commenta la dirigente, professoressa Rita Coccia. Ma di passi avanti questa vera e propria “smartschool” ne ha già fatti parecchi: abolite le classi tradizionali, l’edificio ha adibito un’ala alla parte “comunicazione” e un’altra alla branca scientifica: qui si trovano le aule dedicate alle varie materie in cui gli studenti si spostano al cambio dell’ora. Abolita la metodologia frontale, «ogni docente ha in comodato d’uso un iPad e un proiettore interattivo, i ragazzi dispongono di soli quattro libri cartacei e di iPad mini; la nostra connessione è da 200 mega con 36 access point che agganciano il ragazzo quando si sposta». Non solo. Sono partite le flip class (lezioni che comprendono una spiegazione sommaria da parte del docente, seguita dal caricamento dei materiali in una piattaforma online a cui gli studenti accedono e il giorno seguente ne discutono per approfondire) e i web quest (lancio di un argomento e dei relativi supporti bibliografici, che poi i ragazzi devono utilizzare per studiarlo e presentarlo in classe agli altri, ovviamente col computer), tutto all’insegna del cooperative learning, «che non è semplice lavoro di gruppo ma ricerca comune del sapere», come spiega ancora la professoressa Coccia.

Certo, un cambiamento di questa portata nella scuola italiana (dove, è bene ricordarlo, un istituto su due non ha ancora internet nelle classi) non è indolore, e soprattutto si fa solo se si è tutti convinti, insegnanti in primis. E proprio qui sta una delle chiavi del successo dell’intero Piano. Spiega ancora il professor Ferri: «Con gli animatori digitali e i team per l’innovazione finisce il volontariato scientifico-tecnico e finalmente si esce, per legge, dal nozionismo stile Invalsi. Speriamo che tutti accettino la sfida».


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