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Cooperazione & Relazioni internazionali

Gentiloni e i migranti: un pessimo (e inefficace) inizio

Nel suo primo incontro con la stampa, il nuovo Presidente del Consiglio Gentiloni ha presentato il suo esecutivo come in assoluta continuità col precedente. Ma poiché il voto non è lontano, il primo elemento di discontinuità si comincia ad avere, non a caso, sul delicato tema delle migrazioni

di Marco Ehlardo

Nel suo primo incontro con la stampa, il nuovo Presidente del Consiglio Gentiloni ha presentato il suo esecutivo come in assoluta continuità col precedente. Ne è stata dimostrazione la nomina di ministri e sottosegretari in massima parte confermati, il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, la difesa dei voucher e delle riforme su lavoro e scuola.

Ma poiché il voto non è lontano, il primo elemento di discontinuità si comincia ad avere, non a caso, sul delicato tema delle migrazioni. Il governo Renzi aveva approcciato la questione in modo cauto e, almeno in parte, condivisibile; ad esclusione, però, del sostegno agli accordi tra UE e Paesi come la Turchia (per il blocco dell’afflusso di richiedenti asilo) ed l’Afghanistan (per i rimpatri forzati).

Il nuovo governo inizia subito con un approccio, almeno a parole, più muscolare. Il nuovo ministro dell’interno Minniti annuncia una stretta dei controlli sui migranti non in regola col permesso di soggiorno, la creazione di un CIE (Centro per l’Identificazione e l’Espulsione) in ogni Regione, il raddoppio del numero di espulsioni e nuovi accordi sui rimpatri forzati con i Paesi di provenienza dei migranti. Non c’è che dire, un programma piuttosto salviniano! Il paradosso di questo Paese è che ti lamenti sempre di un governo e di un ministro, salvo rimpiangerli appena arriva il successivo. E in questo caso ci tocca persino rimpiangere Alfano.

Non ne faccio una questione di etica, né di fratellanza (concetto che non mi appartiene) né di tolleranza (vorrei che le persone venissero rispettate, non “tollerate”). Ne faccio, come sempre, una questione di pragmatismo ed efficacia degli interventi. L’irregolarità, ossia la condizione del migrante che non ha titolo legale di soggiorno, giova solo all’economia illegale e criminale. Non giova certo al migrante, ma nemmeno alle aziende che tutelano diritti e contratti (rifiutando, ad esempio, il caporalato) e subiscono la concorrenza sleale di chi non lo fa, né, ancor più, allo Stato, che ne perde di tasse (evase per il lavoro nero a cui è costretto chi non è regolare) e di contributi pensionistici (e quelli dei migranti, ormai, sostengono una parte significativa delle pensioni che l’INPS eroga a “noi italiani”).

In sostanza l’irregolarità è certamente un problema, non lo nego. La domanda da farsi, però, è questa: dobbiamo criminalizzare l’irregolarità (e dunque contrastarne le cause) o, come sempre, criminalizzare chi è irregolare? Al di là degli aspetti umanitari, giovano di più le prime politiche o le seconde? E poi, conti alla mano, davvero il ministro Minniti pensa di risolvere il problema dell’irregolarità portando le espulsioni dalle attuali 5.000 a 10.000 all’anno, quando ci avviamo ad afflussi annui di circa 200.000 migranti?

Il punto, dunque, rimane sempre lo stesso. L’irregolarità si può contrastare solo attraverso tre interventi che intervengano sulle sue cause. Il primo è la creazione di canali regolari per i migranti (oltre a quello della domanda di asilo), e dunque una modifica sostanziale della Bossi-Fini. Che fine hanno fatto, ad esempio, i decreti flussi? Il secondo è la libera mobilità dei migranti in tutta l’UE. Può ancora andar bene, a mio avviso, esaminare domande di asilo o di ingrasso per lavoro nel primo Paese di arrivo, ma poi, ottenuto il titolo, il migrante deve essere libero di muoversi verso qualsiasi Paese UE. Il terzo sono sì gli accordi con i Paesi di provenienza, ma non attraverso interventi a breve termine di contrasto dei flussi, ma con quelli a medio e lungo termine di (vera) cooperazione allo sviluppo. Stando ben attenti, però, a non finanziare quei governi che il proprio popolo lo affamano o lo reprimono. La via repressiva sarebbe un fallimento. Semplicemente perché non funziona. Punto.


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