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Cooperazione & Relazioni internazionali

Le mani creative dei rifugiati

A Treviso da ottobre, negli spazi di un centro sociale, è attivo l’opificio Talking hands: una quindicina di richiedenti asilo, in collaborazione con un designer, realizzano case giochi per bambini. Cioè piccoli rifugi coloratissimi. Un’esperienza autogestita che insegna tante cose...

di Giuseppe Frangi

Il nome del progetto è già tutto un programma: Talking hands. Mani che parlano. Nel senso che attraverso le manisi fa capire chi davvero si è e quanta è la voglia di fare. Lo hanno avviato a Treviso negli spazi del Centro sociale Django: un gruppo di 15 richiedenti asilo lavorano in un laboratorio dove vengono realizzati oggetti di design in legno, per lo più per bambini. Lo hanno avviato Fabrizio Urettini, che fa da organizzatore, e Matteo Zorzenoni, designer. Anche il nome, geniale, che hanno dato alla prima collezione di oggetti è pregnante di rimandi “Rifùgiati”, con l’accento spostato sulla “u”. Si tratta infatti di piccole casette, divertenti e coloratissime, che fungono da “rifugio” per i giochi dei bambini. Il nome quindi evoca le mani che hanno realizzato questi oggetti, e insieme suggerisce la funzione. Racconta Urettini: «Usiamo materiali di riciclo che vengono valorizzati grazie a texture caratteristiche dei paesi d’origine di chi lavora nel laboratorio: sono loro stessi a immaginarle e realizzarle. Le hanno reinterpretate in chiave contemporanea dando vita così a delle micro architetture domestiche, delle tane che esprimono il naturale bisogno dei piccoli di crearsi un rifugio, uno spazio privato diverso da quello pubblico, sociale, che li contenga e li protegga aiutandoli a mettere a fuoco la propria identità».

Il successo del progetto è misurabile sotto più punti di vista: grande impegno e soddisfazione da parte dei rifugiati che vi lavorano, e risposta aldilà delle attese da parte del “mercato, visto che la prima serie di oggetti prodotti ha fatto sold out. «L’opificio è diventato in breve tempo un punto di riferimento», spiega sempre Urettini. «Uso una frase che ha utilizzato un ragazzo in risposta a un giornalista del Corriere che gli chiedeva informazioni su questa esperienza: “Grazie a Talking Hands abbiamo una ragione per alzarci dal letto la mattina”. Credo che questa affermazione spieghi più di cento parole il significato dell’opificio, del bisogno di mettersi in gioco, di fare qualcosa, di usare le mani e costruire nuovi percorsi assieme».

Il laboratorio è nato come “spin off” della palestra popolare Hurricane, dove ogni giorno tra i 50 e 60 richiedenti asilo arrivano per fare attività psicomotorie. «Dai ragazzi che frequentano la palestra sono cominciate ad arrivarci le prime informazioni sulle condizioni in cui si trovano, sull’irreggimentazione che subiscono, sul sistema di controllo creato all’interno delle strutture», racconta Urettini. La maggior parte dei ragazzi coinvolti sono richiedenti asilo ospitati nella ex caserma Serena di Casier, centro di accoglienza gestito da Nova Facility. «Da qui», continua Urettini, «abbiamo sentito la necessità di avviare un’inchiesta indipendente, che ad oggi conta un gruppo di circa sei persone impegnate nella raccolta delle interviste, e che grazie al supporto di Melting Pot e di un team di legali provvede a far fronte ai sempre più numerosi ricorsi che seguono il diniego dello status giuridico di rifugiato da parte delle commissioni».

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All’interno dell’opificio l’organizzazione è nelle mani degli stessi rifugiati: l’orario di lavoro va dalle 9,30 alle 13,30. Recentemente hanno adottato anche un quaderno delle presenze, per dare più ordine e verificare l’effettivo impegno di ciascuno. «Ma è un’autorganizzazione molto orizzontale, senza nessuna gerarchia rigida», spiega Urettini. Recentemente si sono aggiunte anche delle donne maliane: una presenza significativa perché il loro paese vanta una grande tradizione artistica ed espressiva.

Un’ultima parola sul contesto che fa da incubatore a questa esperienza: si tratta di una caserma dismessa e occupata da un gruppo di giovani tre anni fa. Ora è gestita da un’associazione di promozione sociale, che sta trattando con il comune una formula giuridica per legittimarne l’uso. «Abbiamo avviato un percorso di progettazione partecipata in collaborazione con l’università Iuav di Venezia», dice Urettini. «L’obiettivo è trovare una soluzione formale a un’occupazione. Intanto gli stati sono stati aperti all’associazionismo cittadino».


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