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Tre anni sono troppi per aspettare ancora

Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa, risponde alla vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica

di Gianfranco Arnoletti

Ho letto l’articolo di Vita.it che riporta alcune dichiarazioni fatte dalla vicepresidente della Commissione Adozioni Internazionali, Silvia Della Monica, durante un recente convegno. Cifa ha mandato un proprio esponente a presenziare allo stesso convegno, il 7 febbraio scorso, ma l’accesso alla sala non gli è stato concesso. L’interesse non era di sola curiosità: ritengo doveroso, in questo momento di difficoltà a interloquire con la Cai, conoscere e comprendere le linee guida dell’organo preposto a governare il sistema italiano delle adozioni. Ho ascoltato la registrazione del convegno e mi hanno colpito alcuni passaggi.

Sul Congo, innanzitutto. Sarebbero stati autorizzati ad entrare in Italia bambini di cui si sospetta lo stato di adottabilità, nonostante i tempi che quel Paese ha impiegato per il controllo supplementare delle singole procedure? La vicepresidente ha parlato di bambini che portano con sé ricordi di genitori e fratelli: non dobbiamo dimenticare che le adozioni, anche quelle cosiddette “pulite”, non sono riservate ai soli orfani. Molte volte i bambini, se adottati grandicelli, portano con sé questi ricordi ed è necessaria una buona formazione alla famiglia per gestire tutto al meglio.

L’ente autorizzato svolge la propria attività all’interno di regole definite e concordate tra le due autorità centrali, cui spetta l’esclusiva del rapporto in rappresentanza del governo, regole che garantiscano la correttezza sostanziale delle procedure. In mancanza di tale garanzia, gli enti non devono essere autorizzati a operare nel Paese. La definizione di adottabilità è di esclusiva competenza delle autorità del Paese di origine e sarebbe addirittura rischioso, qualora possibile per un’organizzazione straniera, occuparsi dell’indagine sullo stato del minore.

Per quanto riguarda l’Etiopia, le poche adozioni che Cifa ha realizzato nel 2016 in questo paese riguardavano proposte di abbinamento risalenti ad almeno un anno prima: le autorità preposte hanno avuto pertanto tutto il tempo per fare verifiche accurate. Su questo Paese l’ente ha relazionato e sviluppato infinite proposte per monitoraggio e trasparenza su un iter procedurale formalmente adeguato. La particolare norma di quel Paese, che preserva il rapporto con la famiglia di origine, e l’età spesso avanzata dei minori complica ulteriormente la possibilità di avere un taglio netto con il passato. Non stupisce se un dodicenne venga rassicurato, in totale buona fede, sul fatto che dopo adottato possa andare a scuola e possa da grande decidere di ritornare nel suo Paese. Siamo da anni impegnati in Etiopia in programmi di cooperazione con progetti di grande impatto sociale (rinnovati peraltro fino al 2020), e questo ci permette di avere riconoscimenti dalle autorità, strutture adeguate e di comprendere meglio le realtà di questo Paese.

Infine, la vicepresidente ha suggerito che l’autorizzazione per gli enti duri due/tre anni: la durata dell’autorizzazione è già condizionata da tutti quegli atti (sospensione, richiami, revoche ecc) previsti dalla normativa vigente. Nei principi generali dell’ordinamento italiano non è prevista invece l’inversione dell’onere della prova in materia di autorizzazioni amministrative e lo stesso concetto di “concessione” richiama la verifica dei requisiti da parte del concedente.

Sento più volte che l’autorità giudiziaria è stata informata di tutte le ipotesi di reato che la Cai, autorità amministrativa, ha rilevato: il sistema Italia, le famiglie italiane, il Governo, la CAI stessa hanno bisogno di sentenze. Tre anni sono troppi per aspettare ancora e confido che possa arrivare presto un intervento deciso anche del ministro della Giustizia Andrea Orlando, in modo che possa essere fatta chiarezza una volta per tutte. Non dimentichiamo che le accuse che sono state mosse in questi ultimi tempi al mondo dell’adozione internazionale inevitabilmente hanno avuto e avranno delle ripercussioni psicologiche sulle famiglie che hanno già adottato e su quelle che sono intenzionate a farlo, e in particolare sui bambini che sono stati adottati, bambini che invece dovrebbero essere tutelati e non additati come “bambini rubati”. Questo non significa che non vadano condotte indagini dettagliate e approfondite, ma ritengo che le stesse indagini debbano avvenire con la massima discrezione – proprio per tutelare i minori coinvolti – e al tempo stesso con la massima tempestività.

*Gianfranco Arnoletti è presidente di Cifa, ente autorizzato alle adozioni internazionali, attivo anche in Etiopia

Foto R. Schmidt/Getty Images


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