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Diario di un pacato e straordinario impegno civile a fianco di Gabriele Del Grande

La notizia del fermo in Turchia, l'apprensione di familiari e amici, l'attesa per decidere se e come mobilitarsi, i momenti fino all'avvenuta liberazione. Ecco i 15 giorni di detenzione dello scrittore e regista di Io sto con la sposa raccontati attraverso gli umori delle migliaia di persone che lo hanno sostenuto dal basso

di Daniele Biella

È stata un’onda. Un’onda sana e implacabile fino a scopo raggiunto: la liberazione di Gabriele Del Grande, scrittore (di “Mamadou va a morire” tra gli altri) e regista (del pluripremiato “Io sto con la sposa”, girato assieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry) fermato dalle autorità turche lo scorso 9 aprile 2017 e rimpatriato, senza alcuna accusa formale o pendenza giudiziaria, solo 15 giorni dopo, la mattina del 24 aprile. Un’onda di persone di ogni età, professione, nazionalità che per giorni e giorni nel portare avanti le proprie vite aveva però la testa da un’altra parte – barcamenandosi in uno stato di apprensione sconfinante in angoscia, soprattutto la compagna Alexandra D’Onofrio, i familiari e gli amici stretti -, in quel punto del sud della Turchia dove Gabriele stava passando giorni silenti di diritti negati, senza essere assistito da un avvocato né informato sulle accuse a suo carico.

È stata quest’onda, a conti fatti, che ha scatenato l’impensabile: nel giro di 24 ore, da quando Gabriele è riuscito a fare la sua prima chiamata ad Alexandra – ben nove giorni dopo il fermo, il 18 aprile – tutta Italia ha saputo chi fosse quel Del Grande di cui fino al giorno prima la grande massa conosceva davvero poco, se non una pur buona fetta di giornalisti (tra cui Diego Bianchi e Gazebo, trasmissione che gli ha dedicato una puntata speciale la sera del 25 aprile), di attivisti per i diritti umani e di persone che l’avevano incrociato fin dagli anni del primo blog di denuncia che aveva creato contro l’abominio delle tragedie nel Mar Mediterraneo, Fortress Europe.

Non sono stati affatto facili, i primi giorni. Da quando dal cellulare di Gabriele non è arrivato più nulla, tra la compagna (che si trovava con i due figli in Grecia, luogo in cui la famiglia Del Grande si è trasferita da un anno) i parenti e gli amici, scambio di tanti messaggi privati e un’unica domanda: che si fa? Si alza la voce, si fa pressione? Ancora no, si è detto allora. Una volta stabilito il contatto tra famiglia e ministero degli Esteri, la scelta è stata quella del basso profilo. Avvocati al lavoro, in particolare quello scelto dalla famiglia, Alessandra Ballerini – e tanta speranza. Forse un’espulsione rapida, erano le prime informazioni che filtravano dalla Turchia. Eventualità che si è rivelata però infondata: in quei giorni c’era il referendum sul passaggio da Repubblica parlamentare a presidenziale (poi vinti con l’1% dal presidenzialismo nonostante la denuncia di irregolarità da parte degli osservatori internazionali), tutto era bloccato, il dossier Del Grande poteva aspettare. Altri giorni duri di attesa, fino al nono giorno, con la telefonata in cui Gabriele, oltre a denunciare la detenzione arbitraria, diceva di entrare in sciopero della fame e sete, che dopo 48 ore, a incontro avvenuto con Console e avvocato, si è limitato ai cibi solidi. Dopo quel momento, con l’appello rilanciato da Alexandra su facebook, si è concretizzata quell’onda solidale che, a posteriori, rimarrà impressa nella mente di molti per la sua dirompenza: non c’era testata giornalistica o televisione, politico locale o nazionale che il giorno successivo non avesse ricevuto l’input da giornalisti, cittadini o chiunque avesse avuto relazioni dirette o indirette con Gabriele.

Non era una questione di “eroe”: per nessuno lui è tale. È una persona che fa il suo lavoro in modo energico, anche scomodo, ma puntuale. Disposto a correre rischi? Sì. Il suo nuovo libro su cui sta raccogliendo materiale, Un partigiano mi disse, è nato grazie a migliaia di persone che con il crowdfunding hanno raccolto 40mila euro con un preciso mandato: “Gabriele, fai il tuo lavoro, ti sosteniamo”. Un libro che trae spunto da guerre vissute anche da vicino (dal 3 al 13 settembre 2013 Del Grande è stato, da reporter, sotto i bombardamenti di Aleppo), di terrorismi come quello di Isis, e che vuole andare alla fonte di argomenti delicati quanto importanti da affrontare. Per questo la sua presenza in quei luoghi era fonte di apprensione anche per i servizi segreti turchi, probabilmente. Perché quando uno tocca tasti profondi, le ripercussioni sono dietro l’angolo.

Ma è per questo che, quando c’è stato da mobilitarsi, le migliaia di persone che lo appoggiano hanno mostrato un impegno civile che a livello italiano è stato, in questi tempi di drammi umanitari e straniamento collettivo, una delle pressioni corali meglio riuscite da anni a questa parte, riconosciuta anche dal ministro degli Esteri Angelino Alfano al momento dell’accordo raggiunto per il ritorno in patria. Decine di manifestazioni spontanee in altrettante piazze d’Italia (in quella di Milano, giovedì 20 aprile, è stato letto anche l’articolo che Del Grande nel 2014 aveva scritto per raccontarsi a Vita), migliaia di appelli sui social network al motto di #iostocongabriele, e una staffetta di digiuno che ha coinvolto centinaia di cittadini: mobilitazioni straordinarie dal basso e senza toni eccessivi ma che hanno fatto leva su quell’umanità che alla fine si è instillata anche in un sistema duro e sempre meno rispettoso dei diritti umani come quello turco, dove oggi sono almeno 150 i giornalisti rinchiusi in celle solo per supposti “reati d’opinione”, ovvero il mero svolgimento del proprio lavoro. Sia chiaro, la pressione governativa e diplomatica ha fatto il grosso, e la detenzione di Del Grande non è equiparabile a quella che stanno soffrendo i giornalisti turchi (lui stesso ha detto fin dall’arrivo all’aeroporto di Bologna che non gli è stato torto un capello). Ma l’evidente disattenzione per i diritti di una persona – fermata, tra l’altro, in un ristorante in cui qualsiasi cittadino potrebbe stare, non in una zona riservata in cui sarebbe stato necessario un permesso o accredito stampa che lui non aveva – è la dimostrazione che in quello Stato, come denuncia Amnesty International, la situazione è estremamente negativa.

Al netto, Gabriele ora è in Italia, tra le braccia di familiari e amici. Fra pochi giorni tornerà in Grecia ad abbracciare i figli, poi presumibilmente finirà il libro. E lì vedremo il frutto dei cinque viaggi in Turchia degli ultimi mesi, delle decine di ore passate ad ascoltare testimoni, profughi siriani come tanti altri. Pericolo scampato, insegnamenti appresi, e un’indicazione che arriva direttamente dal cuore di un padre: “io l’ho trovato più forte di prima, perché il ferro si forgia nella fucina”, ha detto papà Massimo al Corriere. Consumerà ancora tante suole di scarpe, questo cacciatore di storie prossimo a compiere, il 19 maggio, i 35 anni. Nel frattempo, ha già ripreso in pieno a dispensare le pillole d’ironia con cui allieta chi lo conosce quel tanto che basta, come – nel piccolo – il sottoscritto. Che il giorno dopo il rilascio ha ricevuto un messaggio: “Gli amici si vedono nell’ora del digiuno… Grazie Danié”. Grazie a te, Gabriele. Da parte di tanti.

Disegno di copertina: Molly Crabapple


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