Cooperazione & Relazioni internazionali

Clima: se tradiscono Parigi, a rimetterci saranno gli Stati Uniti

L’intervista alla Responsabile Clima ed Energia del WWF, secondo cui sfilarsi dagli accordi di Parigi sarà una scelta deleteria per gli Stati Uniti, mentre non precluderà il raggiungimento dell'obiettivo: contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi sarà ancora possibile

di Ottavia Spaggiari

Non sono bastati gli appelli del mondo e nemmeno le parole di Papa Francesco a distogliere Donald Trump dall’intenzione di sfilarsi dagli accordi sul clima presi a Parigi nel 2015. Eppure, secondo Mariagrazia Midulla, Responsabile Clima ed Energia del WWF, il passo indietro dell’Americana non rappresenta necessariamente una battuta d’arresto per la transizione energetica e a rimetterci potrebbero essere soprattutto gli Stati Uniti…

Cosa succede se gli Stati Uniti si ritirano dagli accordi?

Prima di tutto bisogna capire le tempistiche. Non sarà una cosa immediata, secondo le previsioni ci impiegherebbero più o meno 3 o 4 anni per sfilarsi dagli accordi di Parigi. Inoltre bisogna sottolineare gli altri stati che hanno confermato gli impegni. Venerdì ci sarà un vertice Europa/Cina e secondo il Financial Times si parlerà anche di questo. Il premier indiano ha confermato di volersi attenere agli accordi. Ci sarà bisogno di accelerare la transizione ma in realtà la scelta di abbandonare Parigi potrebbe avere una ricaduta molto negativa proprio sugli Stati Uniti. Le decisioni prese dal governo americano hanno sempre avuto un impatto importante sul resto del mondo, basti pensare agli efficiency standard per gli schermi, approvati dagli Stati Uniti e poi diffusi a livello globale, questa volta però potrebbe accadere il contrario.

Quindi a rischiare di più potrebbero paradossalmente essere proprio gli Stati Uniti…

La Cina, l’India e l’ Europa sono mercati enormi, la transizione sembra ormai inevitabile e investire nei combustibili fossili sarebbe come investire in pietre se ci trovassimo nell’età del bronzo. La preoccupazione è forte, lo dimostrano tutti gli appelli fatti alla Casa Bianca per restare negli accordi, non solo provenienti dagli ambientalisti, ma di oltre mille aziende. Rimanere fuori dal motore dello sviluppo è pericoloso. Da moltissimo tempo non si sentivano toni così decisi sulla convinzione di aderire ad una determinata linea.

Oltre all’appello delle aziende a Trump, per mantenere gli accordi, negli Stati Uniti, negli ultimi due anni è cresciuto un vero proprio movimento di investitori decisi a disinvestire dai combustibili fossili. Che impatto ha avuto questo fino ad oggi?

È un segnale forte. Gli investitori sono sempre più critici e questo illustra anche il forte posizionamento delle aziende energetiche. La transizione è già in atto.

La posizione di Trump non fa paura?

La preoccupazione degli ambientalisti è sui tempi. Abbiamo continuato ad aumentare le emissioni ma non si può andare avanti così. Ciò che è mancato è un esempio dei Paesi industrializzati. A dire la verità, l’Unione Europea ha fatto la sua parte ma sono mancati gli Stati Uniti e continueranno a mancare. Da parte degli altri Paesi c’è l’esigenza di accelerare. Il fatto che la nazione responsabile del 12% delle emissioni di Co2 globale si sfili da un accordo del genere non è una buona notizia, ma alla lunga questo sarà uno svantaggio soprattutto per gli Stati Uniti, possiamo comunque raggiungere l’obiettivo. I dati occupazionali sull’economia reale lo dicono chiaramente. La strada è tracciata, tornare indietro sarà difficile.


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