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L’abitare collaborativo ha la sua prima mappatura

Alla terza edizione di Experimentdays Milano 2017 presentata l'indagine - basata su 40 case history - che tra i tratti caratteristici registra un forte orientamento all'inclusione sociale, alla condivisione e all'apertura verso valori comuni. Tra le ragioni che spingono a scegliere di vivere in una casa collaborativa vi è la sostenibilità ambientale

di Redazione

Una prima mappatura dell’abitare collaborativo è stata presentata nel corso della terza edizione di Experimentdays Milano 2017 (che si è tenuta dal 23 al 24 giugno alla Stecca 3.0). L’indagine ha preso in esame 40 abitazioni che rispondevano ad almeno due di queste tre condizioni: esistenza di spazi comunitari esterni e interni (sale comuni, area giochi, terrazzi, orti); presenza di servizi e/o attività gestiti dalla comunità di abitanti (lavanderia condominiale, Gas, banca del tempo) e, infine, l’adozione di un processo di progettazione partecipata.

«In questo modo abbiamo potuto valorizzare tutte le esperienze nella loro varietà», ha commentato Liat Rogel, co-fondatrice di HousingLab, organizzatore italiano della manifestazione. «Casi ed esempi di abitare collaborativo ci sono pervenuti da diverse parti d’Italia. Tuttavia, Milano si conferma essere il suo centro nevralgico. Da qui la scelta di continuare a organizzare Experimentdays nel capoluogo lombardo, in collaborazione con il Comune di Milano, che ringrazio per la partecipazione e per i contenuti, che ha saputo dare alla manifestazione».

Dalla mappatura emerge che le 40 abitazioni recensite si posizionano prevalentemente nell’Italia settentrionale, in particolare in Piemonte e Lombardia, con alcuni esempi anche in Trentino Alto Adige, Emilia Romagna e, quelli più a sud, in Toscana.
Il primo caso di abitare collaborativo risale al 2001. Il secondo invece al 2008. Dopo quell’anno, questi esempi pionieristici vengono affiancati da iniziative in costante crescita. Tra il 2010 e il 2014 infatti, si contano 14 progetti ideati e insediati. L’incremento maggiore si è verificato negli ultimissimi anni.

Per quanto riguarda il profilo degli abitanti, dalla mappatura emerge che quasi il 40% delle persone che vivono in abitazioni collaborative rientra nella fascia di età tra i 36 e i 65. Il 30% è tra i 19 e i 35 anni. Infine gli over 60 e i minorenni sono rispettivamente il 20% e 10% degli abitanti. Incrociando poi il dato con le abitazioni che si definiscono cohousing – 21 dalle 40 mappate – si registra un aumento significativo di bambini e ragazzi minorenni, la cui percentuale raggiunge il 20%, di cui il 14% rientra nella fascia 0-10 anni. Mentre cala all’ 8% il numero degli over 65.

Quasi la metà delle abitazioni collaborative censite prevede l’esistenza di appartamenti dedicati a fasce deboli della popolazione, per la maggior parte attraverso la formula della locazione temporanea e questo conferma che l’abitare collaborativo è un fenomeno fortemente orientato all’inclusione sociale.

Tra i motivi scatenanti dell’avvio di un progetto di abitare collaborativo vi è la sostenibilità ambientale. Più del 60% delle iniziative di co-housing infatti ha recuperato edifici esistenti. Il restante 40% si è concentrato nella realizzazione di un nuovo edificio. In tutti i casi però sono stati raggiunti standard altissimi di certificazione energetica. La sostenibilità ambientale non si misura soltanto con la classe energetica degli edifici ma da uno stile di vita sostenibile che diventa possibile grazie alla condivisione di alcuni spazi e servizi.

Inoltre, nelle abitazioni collaborative i vicini condividono il parco-giardino (33 dalle 40 recensite), e coltivano orti (18). All’interno, 31 sale ricreative e multiuso e 26 lavanderie condominiali. In 19 abitazioni è presente uno spazio per il fai da te e in circa un quarto una sala per i bambini. Altri spazi condivisi che meritano una segnalazione sono: foresteria o appartamento per gli ospiti (8 casi), coworking (6), spazio per lo sport (6), piscina (3), fino ad arrivare a una sauna, un teatro e un auditorium.

Non mancano poi le attività collaborative che l’indagine a recensito: esempi di acquisto solidale (16), condivisione di wifi (15) e laboratori artistico-artigianali (16). Nelle abitazioni collaborative, inoltre segnala sempre l’indagine, ci si aiuta a vicenda in maniera spontanea e gratuita. Gli aiuti reciproci riguardano soprattutto il prestito di attrezzi o strumenti (21 casi) e la realizzazione di commissioni (14). Rilevante è anche l’aiuto nella gestione dei figli, per esempio nel loro accompagnamento a scuola (12 abitazioni) e nella loro cura (10 abitazioni). In 7 abitazioni ci si aiuta anche economicamente.
In generale l’abitare collaborativo si apre anche all’esterno offrendo spazi e servizi al quartiere. Più dell’80% delle abitazioni infatti apre i propri spazi al pubblico. Oltre la metà degli esempi di abitare collaborativo organizzano attività per il quartiere o la città, spesso in collaborazione con l’amministrazione o con altre associazioni del territorio.

«Riconoscendo la validità dei modelli abitativi che sostengono forme di collaborazione e di mutualità, riaggiornando principi e valori già cari alla cooperazione abitativa, ritengo che il ruolo della Pubblica amministrazione sia quello di sostenere con particolare forza e decisione tutte quelle esperienze residenziali che aprono spazi e servizi alle popolazioni e alle famiglie più fragili» dice Gabriele Rabaiotti, assessore alla Casa del Comune di Milano. «È per noi decisivo il rapporto che si viene a costruire tra chi abita un edificio perché può permettersi di sceglierlo e chi invece si trova “fuori” perché fatica a recuperare soluzioni nel mercato ordinario. La città ha bisogno di crescere ricercando maggior dinamismo e mobilità, anche sui temi abitativi. Ed è questa la direzione in cui siamo chiamati a lavorare, esplorando anche nuove forme di partenariato col privato e il privato sociale».

In apertura foto di Photo by Toa Heftiba on Unsplash


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