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Firmin Matoko (Unesco): “L’industria culturale, un potenziale economico per l’Africa”

122 milioni. E’ il numero colossale di posti di lavoro che l’Africa dovrà creare per i suoi giovani entro il 2027. “L’industria culturale, troppo spesso sottovalutata dai governi e investitori, ha un ruolo da giocare”, assicura a Vita.it Firmin Edouard Matoko, vice direttore del Dipartimento Africa all’Unesco. Ma tra assenza di infrastrutture, l’incapacità delle autorità pubbliche ad applicare le leggi in vigore e la mancanza di formazione e risorse umane, la strada è ancora lunga.

di Joshua Massarenti

Laureato in Scienze politiche e relazioni internazionali dell’Università Cesare Alfieri di Firenze, Edouard Firmin Matoko conosce bene l’Italia, dove nel 2002 ha pubblicato anche un libro: “L’Africa e gli africani. Utopia o rivoluzione?” A quindici anni di distanza, la domanda rimane aperta. Come tanti altri settori, quello culturale potrebbe generare ricchezza economica e posti di lavoro. “Lo dimostra l’industria cinematografica nigeriana Nollywood, che oggi impiega più di 130mila persone”, assicura Matoko in questa intervista concessa a Vita.it durante le ultime Giornate europee per lo sviluppo (EDD). “Ma è un’eccezione, ci sono ancora troppi limiti che ostacolano l’affermazione di un’industria culturale a livello continentale”. Nelle sue vesti di vice direttore del Dipartimento Africa dell’Unesco, ci spiega il fossato che separa l’utopia dalla realtà.

A che tipo di ostacoli un giovane artista africano è confrontato?

Ce ne sono sostanzialmente quattro. Il primo riguarda l’assenza di infrastrutture. Prendiamo l’esempio di un giovane chitarrista. In Africa, ci sono poche case discografiche in grado di produrlo e commercializzare la sua musica. E’ quindi spesso costretto a cercare fortuna al di fuori del continente africano. Quanti sono in grado di farlo? Pochissimi rispetto alla massa di musicisti di cui disponiamo in Africa. C’è poi un secondo problema, ancora più grave: è l’incapacità delle autorità pubbliche ad applicare le regole in vigore, penso a quelle sui diritti d’autore, la proprietà intellettuale. Se viaggiate nelle grandi città africane, non potete non accorgervi della massa di CD e DVD venduti al mercato nero. Il pirataggio è un flagello per l’industria culturale africana. Le regole e le leggi esistono, ma gli Stati africani non hanno i mezzi per applicarle.

Se viaggiate nelle grandi città africane, non potete non accorgervi della massa di CD e DVD venduti al mercato nero. Il pirataggio è un flagello per l’industria culturale africana.

C’è poi un fenomeno di cui si parla molto poco, ed è la miseria in cui vivono molti artisti durante la loro vecchaia. Ho conosciuto tanti musicisti che sono andati a prodursi in Europa, a Cuba, negli Stati Uniti, ma che al termine della loro carriera non hanno nessuna protezione sociale, nessuna pensione.

Infine, la formazione. Oltre il 90% della creatività africana è spontanea, con artisti che non hanno mai frequentato un’accademia delle Belle Arti o un conservatorio di musica. Certo, nessuno può ignorare il genio di molti artisti afriani, ma le loro conoscenze non sono trasmesse alle nuove generazioni. Salvo rare eccezioni, non esistono scuole o accademie capaci di insegnare il grande patrimonio culturale di un paese. Potrei citare la scuola di pittura di Poto-Poto in Congo-Brazzaville oppure l’Ecole du patrimoine per la conservazione e la protezione del patrimonio culturale in Benin, ma sono istituzioni molti fragili.

Si parla sempre di più del ruolo importante che potrebbe giocare il settore privato nella cooperazione allo sviluppo, compreso quella culturale. Lei ci crede?

Ci credo se a monte esistono ambienti finanziari propizi agli investimenti. Penso ad esempio a cunei fiscali a favore dell’industria culturale che siano attraenti per gli investitori privati. Al di là di tutto, l’Africa è un mosaico di generalità dotato di grandi eccezioni.

Quali?

La più nota è Nollywood, un’industria cinematografica capace di impiegare più di 130mila persone e produrre più di 50 film a settimana. La Nigeria è oggi il secondo più grande produttore di film al mondo dopo l’India. La sua influenza è tale in Africa che paesi frontalieri come il Ghana o il Camerun hanno finito per replicare il modello industriale nigeriano.

Ma questo non frena la fuga dei cervelli…

Purtroppo no. Di fronte alla debolezza o all’assenza di industria culturale, molti artisti tentano la strada del successo all’estero, firmando accordi ridicoli con le case di produzioni. Questa fuga dei cervelli ha un impatto negativo per le entrate fiscali che vengono a mancare e i posti di lavoro che gli artisti emigranti avrebbero potuto creare in Africa. La cultura va considerata come un bene economico, altrimenti saremo sempre confrontati agli stessi problemi che perdurano da decenni.

Che fa la politica per favorire l’industria creativa in Africa?

Con l’adozione della Convenzione sulla diversità delle espressioni culturali nel 2005, l’Unesco è stata la prima organizzazione internazionale ad incitare gli Stati a investire sempre di più nell’industria culturale. Oggi non c’è uno Stato africano che non sia dotato di un ministero della cultura; ogni anno si tiene ad Addis Abeba una riunione di tutti i ministri della cultura degli Stati membri dell’Unione Africana, che nel 2006 ha approvato una Carta della rinascita culturale africana e nel 2008 una Convenzione per il riconoscimento e la promozione dell’industria culturale in Africa.

Nollywood è un’industria cinematografica capace di impiegare più di 130mila persone e produrre più di 50 film a settimana.

Oggi lo sforzo richiesto ai governanti africani è di dimostrare il peso della cultura nel Pil dei loro paesi. Per facilitare questo lavoro, da due o tre anni l’istituto delle statistiche dell’Unesco ha creato o individuato una serie di indicatori che possono misurare la ricchezza generata dalla cultura in un paese del Sud del Mondo. Secondo le nostre stime, il peso del settore culturale sul Pil nazionale è di circa il 10% nei paesi poveri o intermediari, e scende in media al 3 o 4% nei paesi africani. Ma da queste stastistiche è esluso il settore informale, il cui peso è enorme in Africa.

Detto questo, la cultura non può soltanto essere pensata come una fonte di ricchezza economica, ma anche come strumento di unità nazionale. Lo abbiamo visto in Mali con la presa di Timbuctù, dove il primo gesto dei terroristi è stato quello di attaccare i luoghi culturali antichissimi come la biblioteca, un simbolo dell’identità nazionale. La nostra Convenzione mira a promuovere questa duplice valenza della cultura, ma non solo. Gli stessi africani iniziano a prendere coscienza dell’importanza di investire nella cultura per rafforzare le nazioni del continente. Penso a grandi mecenati come Aliko Dangote, Tony Elumelu oppure Sindika Dokolo.

Quali sono i programmi più importanti lanciati dall’Unesco a favore dell’industria culturale africana?

Citerei “Villes créatrices”, che federa le grandi metropoli del mondo per sostenere le industrie culturali. L’Unesco ha anche messo in piedi un fondo speciale per giovani artisti, ma come tante altre organizzazioni e istituzioni internazionali, l’accesso a questo fondo di quattro milioni all’anno risulta difficile. Oggi purtroppo, tra mancanza di strutture e di risorse umane, la maggior parte dei creatori africani non sono sufficientemente armati per sfidare procedure burocratiche complesse; molti di loro abbandonano le loro richieste di finanziamento. Infine, stiamo tentando di rafforzare la qualità delle risorse umane dei ministeri dei beni pubblici e della cultura degli Stati africani per consentirli di accrescere la qualità dei dossier che depositano presso il Comitato sul riconoscimento dei patrimoni culturali universali. Ci sono in Africa dei tesori straordinari, ma che non vengono risconociuti come tali dall’Unesco per colpa di un dossier costruito male sul piano tecnico.

La maggior parte dei creatori africani non sono sufficientemente armati per sfidare procedure burocratiche complesse; molti di loro abbandonano le loro richieste di finanziamento.

Che ruolo possono giocare i media africani per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della cultura e le opportunità che può offrire ai loro paesi?

Il loro ruolo è essenziale, ma ancora oggi le pagine culturali risultano sempre tra le ultime dei giornali o magazine africani. Questo perché i media e i loro direttori sono ancora convinti che la cultura è soltanto un divertimento, non viene considerata come un bene materiale e immateriale in grado di creare profitti e posti di lavoro. I giornalisti andrebbero formati e sensibilizzati, è una sfida sulla quale l’Unesco si sta impegnando. Lo stesso discorso vale per il settore educativo, dove prevale una grande indifferenza nei confronti dell’insegnamento artistico.

La restituzione delle opere d'arte agli Stati africani è al centro di scontri continui tra alcuni governi del continenti e le loro ex colonie. L’ultimo in ordine cronologico è quello che oppone il Benin e la Francia. Qual’è la posizione dell’Unesco?

Vorrei innanzitutto ricordare che esiste una convenzione dell’Unesco sulla restituzione dei beni culturali ratificato da tutti gli Stati africani e dall’Unione Europea. Alcuni casi, come quello della Stele di Axum restituito dall’Italia all’Etiopia, hanno avuto un esito positivo. In altri casi, è più difficile. Ho incontrato a maggio il ministro degli Esteri del Benin a Parigi, il quale mi ha detto che il suo governo ha abbandonato la richiesta di una restituzione degli oggetti regali beninensi, optando invece per la necessità di consentire ai cittadini del suo paese di poter accedere a questi oggetti attraverso un loro prestito da parte della Francia.


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