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Parlare la lingua dell’altro: la lezione di Jurij M. Lotman

Un popolo custodisce memorie, idee, informazioni. In certi uomini, come biblioteche viventi, si condensa il legame di una lunga tradizione: è ciò che chiamiamo "cultura". Che cosa accade quando le radici si gelano, i rami si seccano e il ruolo degli "intellettuali" è ridotto a quello di burocrati? Bompiani pubblica un volume di conversazioni di Jurij M. Lotman, il padre della semiotica culturale: un lavoro cruciale, per capire ciò che rischiamo quando dividiamo il pensiero dalla vita

di Marco Dotti

Che cos’è il pensiero? Jurij M. Lotman, in una serie di straordinarie Conversazioni sulla cultura russa (Bompiani, 2017, pagina 448, euro 20), curate da Silvia Burini e tradotte da Valentina Parisi, lo definisce così: «il pensiero è il diritto al dubbio». Ma non coincide col dubbio.

Diritto al dubbio

Pensare non è, semplicemente, dubitare. Pensare è dissolvere il partito preso delle opinioni, facendo ripercorrere dentro di sé un tragitto che le idee già hanno percorso per arrivare fino a noi. È farle nostre, quando conta, quando vale "farle nostre". Per questo conta e vale – spiega il grande semiologo, figura di spicco della celebre Scuola di Mosca-Tartu – «almeno una volta nella vita, aver dubitato di tutto». Dubitare è esistare. E l'uomo è un animale che, positivamente, esita.

Questa vertigine ha le sue armi, le sue risorse, le sue astuzie, le sue pratiche, la sua infinita e infinitamente fragile resistenza. Le energie che l’umano ha in serbo, di contro all’inciviltà e alla violenza, spiega Lotman, «sono pressoché infinite». Anche se spesso – eccoci al dunque – ne dubitiamo. E poi Lotman fa un esempio: una mamma e il suo bambino. Si sfiorano, si sentono, ma ancora non si parlano. Ecco, d’un tratto, il bambino che tenta di afferrare la lingua della madre, parlandola. La madre, allora, balbetta la lingua del bambino. Nessuno è più nella propria lingua, ma si protende all’altro.

Desiderare l'altro

Entrambi, madre e figlio, «separati e diversi, ma legati reciprocamente dall’amore per l’altro si scambiano le lingue, per cercare di comprendersi». La madre abbandona temporaneamente la propria lingua, lo stesso fa il bambino. Il bambino cerca di entrare nella lingua dell’altro, la madre fa lo stesso.

Essenza dell’intellettualità, ci spiega Lotman, è questo desiderio dell’altro. È un desiderio che l’altro sia altro. Comprendere il desiderio è riconoscere l’altro come tale. È questo “parlare l’altro” dentro di sé, questo “balbettare” la lingua dell’altro. E dubitare. Dubitare di tutto, dunque. Dubitare di poter dominare la lingua dell’altro, scimmiottando l’altro, senza farne radicale esperienza. Ci sarebbe, in quella certezza di dominio, una matrice di inciviltà.

Nella lingua dell’altro si compie la sfida cruciale per il pensiero: è il muro che cede al passaggio del dubbio. Ma il dubbio, come ogni cosa, ha il suo prezzo e il prezzo del dubbio è molto alto.

Oggi si parla tanto di accoglienza, ospitalità, integrazione. Ma, tornando alla lezione attualissima di Lotman, chiediamoci: che cosa siamo disposti a rinunciare per queste cose? A una tazza di caffè? A una serata al cinema? Allora, insegnava Lotman, non si tratta di idee, ma di parole. Vuote, per di più.

Che prezzo dare alle nostre idee?

Racconta Lotman che un giorno Tolstoj, giovane ufficiale di artiglieria reduce da Sebastopoli, arrivò a Pietroburgo nella redazione del “Contemporaneo”. Tolstoj irruppe nel corso di una disputa molto accesa fra liberali e democratici, ma non riuscì a capire le ragioni del contendere. Chiese allora lumi a Nekrasov, che gli rispose: le convinzioni! Discutiamo per le nostre convinzioni! Ma quali convinzioni, ribatté Tolstoj, queste sono solo parole: «le convinzioni sono quando uno sta in guardia impugnando un pugnale».

Intendeva dire, Tolstoj, che non ogni parola è un’idea, non ogni idea – per quanto “bella”, “buona” e levigata – è una convinzione. Talvolta è un alibi.

Di contro, proprio la capacità di non fabbricarsi alibi, unendo vita e pensiero, osserva Lotman, è la caratteristica di quell’individuo pensante che – se la parola non fosse caduta in discredito, ma anche questo discredito è una spia socioculturale importante – chiameremmo “un intellettuale”.

«Parlare non costa nulla, fondere vita e pensiero invece è difficile perché la realtà impone spesso di sacrificare le proprie idee». In una lettera al fratello, Cechov elenca le caratteristiche che dovrebbe possedere un “uomo educato”, un intellettuale. Tra queste, «temere la menzogna come si teme il fuoco».

Intellettuali vs. burocrati

Un intellettuale, spiega Lotman, non dovrebbe mai mentire – prima di tutti a se stesso: in interiore homine habitat veritas. Ma è nel mondo che si dà prova di coerenza. Se si vive in un contesto di menzogna, non si può che convivere con il sospetto (che è una distorsione del dubbio) e sospettare di tutto.

E qui c’è il gran problema. Viviamo in un tempo fuori di sesto, dove «gli intellettuali si fabbricano sosia che li giustificano e danno loro ragione». La menzogna è l’olio nell’ingranaggio: l’altro scompare, la sua lingua è mozzata. Ma questi non sono intellettuali, specifica Lotman, bensì burocrati. E il burocrate è già, di per sé, una figura anticulturale che non va verso la parola dell’altro, ma gli impone i suoi sottotitoli.

Non c’è desiderio. Non c’è conflitto. Non c’è amore. Non c’è dialogo. Non c’è pensiero, nell’anticultura. Non c’è dubbio. Soprattutto: non c’è vita. Riconiugare vita e pensiero, alterità e dubbio: non c'è altra strada, per noi.


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