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L’inclusione degli alunni con disabilità è un’illusione: riflessioni su un modello mai nato

Sono passati 45 anni da quando i primi ragazzi ciechi vennero inseriti nella scuola "di tutti" e 40 dalla legge sull'integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Quella normativa si è rivelata illusoriamente inclusiva, per via di un difetto strutturale: nessuno ha mai messo mano al sistema-scuola nel suo complesso. Progettiamo ancora troppo per gli alunni con disabilità, anziché fare una progettazione for all

di Luciano Paschetta

Ho letto con interesse i contenuti dell’intervista rilasciata dal professor Dario Ianes pubblicata su Vita.it il 2 novembre. In quest’anno, dove ricorrono i 40 anni dalla promulgazione della legge 517, i 30 anni dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 215 e i 25 anni dall’emanazione della legge 104, credo sia opportuna una riflessione su questa normativa da parte di chi come me, disabile visivo e oggi componente come esperto del Network per l’inclusione scolastica dell’UICI, si occupa con ruoli diversi di inclusione scolastica dei disabili nella scuola fin dal 1972. Lo faccio con l’esperienza del consulente tiflopedagogico, del docente, del dirigente scolastico di scuola secondaria di II grado, del formatore di docenti per il sostegno e come ex componente e responsabile delle commissioni nazionali istruzione dell’UICI e negli ultimi anni come referente della FAND nel gruppo Scuola nazionale e presso l’Osservatorio sull’inclusione scolastica del MIUR. La mia è una voce fuori dal mondo accademico e vicina alla scuola “in atto”, agli alunni con disabilità e alle loro famiglie.

Queste mie riflessioni vogliono aiutare a capire perché, dopo 45 anni dall’inserimento dei primi alunni disabili nella scuola di tutti, la situazione sia oggi quella richiamata dal prof. Ianes e perché un vero modello inclusivo in Italia non sia mai nato. L’inserimento prima, l’integrazione poi e l’inclusione oggi sono sempre state (e sono ancora) realizzate a macchia di leopardo, da gruppi di docenti di “buona volontà” che sembra quasi continuino a “sperimentare” con successo buone prassi di modelli dai quali il “sistema scuola” resta fuori. Il sistema-scuola non è ancora riuscito a elaborare gli standard di un modello da “offrire” a tutte le scuole, capace di rendere effettiva ed omogenea l’inclusione scolastica sull'intero territorio nazionale.

L’inserimento prima, l’integrazione poi e l’inclusione oggi sono sempre state (e sono ancora) realizzate a macchia di leopardo, da gruppi di docenti di “buona volontà” che sembra quasi continuino a “sperimentare” buone prassi dai quali il “sistema scuola” resta fuori. Il sistema-scuola non è ancora riuscito a elaborare gli standard di un modello da “offrire” a tutte le scuole, capace di rendere effettiva ed omogenea l’inclusione scolastica sull'intero territorio nazionale

Sarebbe semplicistico dire che la causa sta nel costume del nostro Paese, dove a fronte di leggi molto avanzate permangono comportamenti che sembrano ignorarle. Riflettendo sulla storia della legislazione in materia di inclusione, emerge come in realtà proprio in essa trovi origine l’attuale stato di cose. All’inizio degli anni Settanta i primi inserimenti scolastici di alunni con disabilità si realizzarono “contra lege” o “extra lege”: significativo in tal senso l’esempio dei primi ciechi inseriti nella scuola di tutti nel 1972, dove solo l’autodenuncia di un gruppo di genitori provocò una sentenza della Corte costituzionale che ne legittimò il diritto, un diritto che venne successivamente sancito dalla legge 360 del 1976, ma senza che questa dicesse nulla sulle modalità con il quale l’inserimento dovesse realizzarsi. Tuttavia quegli inserimenti ebbero successo perché in quegli anni vi era nella scuola la consapevolezza della necessità di cambiare e un clima di innovazione ben rappresentati nella “Lettera ad una professoressa” di don Milani. L’accoglienza degli alunni con disabilità, favorendo il rinnovamento e la sperimentazione didattica, rientrava in questa volontà di cambiamento.

L’anno successivo, nel 1977, la legge 517 oltre a riconoscere il diritto di tutti gli alunni con disabilità ad assolvere all’obbligo scolastico nelle scuole “normali”, forniva le indicazioni necessarie alla costruzione del modello di inclusione e per il successo dell’integrazione: la riorganizzazione del “contesto”, prevedeva «attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse» e «attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno» quale premessa per il lavoro del docente specializzato per il sostegno assegnato alla classe in un rapporto di uno a quattro. Contemporaneamente, però, nulla veniva detto in riferimento alla generalità delle classi e la concretizzazione di quanto affermato nella legge 517 trovava supporto giuridico solo in uno dei decreti Malfatti, il DPR 419 del 1974 sulla sperimentazione didattica ed educativa. Nasceva così quasi una “scuola parallela” che si occupava dell’inserimento con modalità sperimentali, mentre il sistema nel suo complesso continuava a tenersene fuori: non era raro, in quegli anni, che dei collegi non trovando nessuna maestra o consiglio di classe disponibile ad accettare spontaneamente l’alunno con disabilità, proponessero l’individuazione della classe in cui inserirlo per sorteggio.

Il sistema-scuola nel suo complesso non è modificato dalla legge 517, facendo nascere così quasi una “scuola parallela” che si occupava dell’inserimento con modalità sperimentali: non era raro, in quegli anni, che non trovandosi nessuna maestra o consiglio di classe disponibile ad accettare spontaneamente l’alunno con disabilità, i collegi sorteggiassero la classe in cui inserirlo

Nonostante ciò, la scuola elementare (oggi scuola primaria) che al suo interno aveva personale docente e direttori con competenze didattiche e pedagogiche, riuscì a sviluppare modelli di insegnamento capaci di integrare gli alunni con difficoltà, mentre l’inserimento nella scuola secondaria di primo grado, allora scuola media, dove i docenti spesso avevano scarse competenze pedagogiche e applicavano una didattica più improntata alla disciplina, faticava di più a sviluppare percorsi sperimentali capaci di integrare l’alunno con disabilità. In tutti i casi quegli inserimenti rimanevano spesso oasi felici all’interno di un contesto scuola che procedeva immutato. Nasce di qui, dalla mancanza di adeguamento del “contesto scuola”, il meccanismo della delega al docente di sostegno ed il suo progressivo isolamento. Cosa dire poi del modo in cui i disabili intellettivi entrarono nella secondaria di secondo grado? La sentenza 215/87 riconosceva loro il diritto all’inserimento, ma senza che, al di là di circolari, nulla cambiasse nella normativa generale per favorirne l’inclusione.

La stessa legge 104/92, mentre da un lato definiva con chiarezza i diritti dei disabili, negli articoli riferiti all’integrazione scolastica ancora una volta precisava procedure e strumenti per la sola integrazione dei disabili, che non toccavano l’organizzazione del sistema nel suo complesso: ad esempio il PEI (Progetto educativo individualizzato) veniva proposto in un contesto di scuola che di fatto non progettava i suoi percorsi formativi ed i suoi curricula e questo non fece che rinforzare la delega e l’isolamento del docente per il sostegno con il “suo” alunno all’interno della classe. Inoltre, con l’abolizione dei corsi biennali di specializzazione polivalenti e il passaggio della formazione dei docenti per il sostegno dall’amministrazione scolastica alle Università, il patrimonio di buone prassi di integrazione sviluppate in quei vent’anni di inserimento, perdeva un importante strumento di “disseminazione”. Per rispondere al nuovo compito, dopo la “ scomparsa delle classi speciali, nelle Università vedremo “fiorire” le cattedre di “pedagogia speciale”, quasi a indicare la necessità di una pedagogia parallela “dedicata” all’educazione degli alunni con disabilità.

Il problema di fondo è l’emanazione di norme per l’inclusione, che di fatto si riferiscono sempre e solo alla progettazione per gli alunni con disabilità anziché ad un modello di progettazione for all, che coinvolga nel cambiamento l’intero sistema. Infatti il Miur chiede il PAI accanto al PTOF. La normativa così è risultata solo illusoriamente inclusiva, mentre nei fatti ha generato un sistema “duale” nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello in “perenne sperimentazione” per gli alunni con disabilità

Neanche l’autonomia didattica, approvata nel 2000, è riuscita finora a modificare più di tanto questo stato di cose, pur dando alle scuole strumenti concreti: troppo calata in un sistema dove era scarsamente presente la cultura della progettazione, senza che venisse affiancata da un serio programma di aggiornamento del corpo docente. Una riprova del fatto che il sistema scuola continui a considerare l’inclusione dei disabili una cosa separata è la richiesta alle scuole di stendere il PAI, il Piano annuale per l’inclusione, che si configura quasi come una proposta educativa parallela a quella del PTOF , il Piano triennale per l’offerta formativa e del conseguente Piano annuale che ne definisce gli obiettivi, le risorse e gli strumenti.

Come si vede il vero problema non sta nella mancata applicazione della norma, ma in un difetto metodologico intrinseco alla stessa normativa sull’inclusione: l’emanazione di norme per l’inclusione, che di fatto si riferiscono sempre e solo alla progettazione per gli alunni con disabilità, anziché ad un modello di progettazione for all, che coinvolga nel cambiamento l’intero sistema. Una normativa che è risultata solo illusoriamente inclusiva, mentre nei fatti ha generato un sistema “duale” nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello in “perenne sperimentazione” per gli alunni con disabilità, un sistema scolastico che non può che essere inclusivo a macchia di leopardo, un sistema che se garantisce l’inserimento di tutti gli alunni con disabilità resta però per molti di loro solo fittiziamente inclusivo, un sistema all’interno del quale è stato ed è difficile far nascere quel modello capace di includere concretamente nella scuola “per tutti e per ciascuno”, più volte richiamata dai documenti ministeriali e dalle relazione degli accademici.

*Luciano Paschetta è pedagogista esperto in scienze tiflologiche, referente della FAND per la Suola e membro dell’Osservatorio sull’inclusione scolastica del MIUR.

Photo by Igor Ovsyannykov on Unsplash


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