Cooperazione & Relazioni internazionali

Migranti: se l’Europa cancella le quote obbligatorie

Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha definito il sistema delle quote obbligatorie per la distribuzione dei migranti «divisivo e inefficace», preparando così il terreno per ridiscutere lo schema al vertice UE di giovedì, anche se un’altra soluzione condivisa sembra difficile da raggiungere. Nel frattempo a pagare il prezzo più caro, le persone bloccate sulle isole greche e nell’inferno libico

di Ottavia Spaggiari

«Divisivo e inefficace», così il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha definito il sistema delle quote obbligatorie per la distribuzione dei migranti, nel discorso che andrà a presentare ai leader europei al vertice di giovedì, preparando così il terreno per l’eliminazione di questo schema e dando agli stati membri una scadenza di sei mesi per raggiungere un accordo unanime sulle riforme necessarie del sistema di asilo, che però sembra difficile da raggiungere.

La stessa proposta di Tusk potrebbe essere ostacolata dalla Commissione europea che lo scorso aprile, aveva rilasciato un comunicato molto ottimista, parlando di “progressi costanti”, anche se, come avevamo scritto allora, in realtà quello che doveva essere lo sforzo corale dell’UE per condividere le responsabilità in materia di migrazioni aveva subito dimostrato parecchi punti deboli. Oltre alla scarsa disponibilità all’accoglienza di diversi stati membri, il meccanismo di accesso era complicato anche per i destinatari, accessibile solo ai richiedenti asilo provenienti da paesi con un tasso di riconoscimento di protezione superiore al 75% (in base ai report trimestrali dell’Eurostat).

Il sistema delle quote

Le quote obbligatorie erano state introdotte nel 2015 per alleggerire i Paesi di prima accoglienza (Grecia e Italia). Quell’anno oltre 1 milione di persone erano arrivate in Europa, oltre 800mila in Grecia e circa 150mila in Italia. Altissimo il numero di profughi: secondo l’Unhcr l’84% di queste persone provenivano dai primi dieci Paesi “creatori di rifugiati”, un dato che confermava che la maggior parte delle persone entrate in Europa fossero state costrette a fuggire da guerre, conflitti e persecuzioni. Circa il 50% degli arrivi provenivano dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan e il 7% dall’Iraq. L’obiettivo, annunciato a settembre 2015, approvato dal Consiglio Giustizia e Affari Interni su proposta della Commissione, infatti prevedeva il ricollocamento di 160mila persone dall’Italia e dalla Grecia in altri Paesi europei, entro due anni. In realtà, dopo l’accordo con la Turchia del marzo 2016 (che prevedeva che per ogni siriano rinviato in Turchia dalle isole greche, un altro siriano fosse ricollocato dalla Turchia nell'UE), il Consiglio aveva modificato l’obiettivo da raggiungere: scendendo a 98.255 persone ricollocate, un numero a cui non ci si è nemmeno mai avvicinati.

Ad oggi da Italia e Grecia sono state ricollocate appena 32.393 persone. 10.845 dall’Italia, da cui avrebbero dovuto essere ricollocate 34.953 persone e 21.548 dalla Grecia da cui avrebbero dovuto invece essere ricollocate 63.302 persone.

Tra i principali oppositori del sistema, il quartetto di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), che aveva votato contro l’adozione del sistema, poi passato con un voto di maggioranza.

Numeri magrissimi quelli delle persone accolte in questi Paesi: appena 16 in Slovacchia, 12 in Repubblica Ceca e addirittura zero in Ungheria e Polonia. Il numero più alto nell'est europa quello della Romania con 728 persone.

Ad aver accolto più profughi la Germania, con 9.724 persone, seguita dalla Francia con 4.566 persone e dalla Svezia con 2.852. Queste cifre però rimangono briciole rispetto agli obiettivi iniziali, dimostrando la chiusura dell’Europa che si riversa con un tragico effetto domino sulle persone bloccate in uno stato di limbo sia dentro che fuori i nostri confini.

Il limbo delle isole greche

Sulle isole greche ad oggi sono bloccate oltre 15mila persone,12.500 nei campi ufficiali e circa 2.500 nei campi informali, numeri ormai molto oltre i limiti di capienza degli hotspot che dovrebbero contenere un massimo di 5.450 persone. Moltissimi uomini, donne e bambini sono costretti a dormire in tenda, nonostante l’arrivo dell’inverno. Una situazione inaccettabile, denunciata da diverse Ong tra cui Oxfam e Medici senza Frontiere. Tra l’altro, proprio Oxfam aveva sottolineato in un’intervista a Vita di due settimane fa, che sulla terraferma ci sarebbero effettivamente strutture in grado di accogliere nuovi arrivi. «Al momento ci sarebbero più di 1000 posti disponibili in appartamento e più di 1000 nei campi, da qui al 31 dicembre poi dovrebbero rendersi disponibili oltre 4mila posti», aveva spiegato Nicola Bay, responsabile della risposta umanitaria in Grecia di Oxfam. «Mantenere le persone negli hotspot però è una decisione politica relativa all’accordo con la Turchia, per cui la pre-condizione non scritta era che le persone rimanessero sulle isole, da qui la misura amministrativa di restrizione geografica».

Nell’ultimo anno si è inoltre assistito ad un’inversione di rotta rispetto al crollo degli arrivi in Grecia dopo la firma dell’accordo con la Turchia a marzo 2016. Se infatti subito dopo la firma dell’accordo si era assistito ad un crollo degli arrivi del 90%, negli ultimi mesi la situazione è cambiata.

Ad oggi sono comunque oltre 50mila le persone arrivate in Grecia dal Paese. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), a settembre sulle isole sono state registrate 5.799 nuove persone e a ottobre 5.007, un aumento del 40% rispetto ad ottobre 2016.

La questione libica

Guardando alla situazione delle isole greche, dove negli hotspot ci sono persone che aspettano da quasi due anni di essere trasferite in un nuovo Paese europeo, non si può non pensare alla Libia un Paese che non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e all’annuncio da parte dei leader europei dell’intenzione di svuotare i centri di detenzione in cui migliaia di persone sono imprigionate in condizioni disumane.

Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr aveva sottolineato che le due situazioni sono completamente diverse. «Quello dalla Grecia era un ricollocamento di persone già in Europa verso altri Paesi europei, una sorta di condivisione delle responsabilità. Qui invece si tratta di un reinsediamento verso paesi terzi sicuri anche extra-europei, ci sono diversi Paesi, come il Canada ad esempio, che si sono mostrati favorevoli all’utilizzo di canali sicuri per l’accoglienza dei rifugiati. Le situazioni non sono paragonabili».

Sicuramente differenze strategiche, tecniche e di responsabilità. Il tema della chiusura europea però rimane un nodo chiave anche dell’emergenza umanitaria in Libia secondo Federico Soda, direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) che, raccontando il controverso sistema dei rimpatri volontari dalla Libia, criticato da alcune Ong aveva spiegato: « È una situazione difficilissima ma non ci sono altri modi al momento. Fare resettlement dalla Libia non è impossibile ma è molto, molto difficile, il problema è che per il momento non c’è apertura in Europa per accogliere le persone, le quote rimangono bassissime».

Foto: Michelangelo Mignosa


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