Cooperazione & Relazioni internazionali

La storia di Fatema, un’adolescente Rohingya in fuga dal Myanmar

Quella di Fatema è la storia di un'adolescenza spezzata, come quella di molti altri ragazzi in Bangladesh, dove Moas è impegnato in un'operazione umanitaria per offrire assistenza ai rifugiati rohingya e alle comunità locali. I minori rappresentano il 60% della popolazione nei campi profughi in Bangladesh, il 6% arriva gravemente denutrito

di Regina Catrambone

Fatema ha 15 anni ed è arrivata presso la nostra MOAS Aid Station di Unchiprang insieme ad un familiare e alla cugina Sadika di soli 10 anni per ricevere assistenza medica. Fatema da giorni si sentiva debole e priva di forze oltre ad avere febbre e mal di testa, la piccola Sadika invece soffriva di febbre e raffreddore. In entrambi i casi, quindi, non è stata diagnostica nessuna grave patologia e con le adeguate cure mediche i loro disturbi verranno curati in poco tempo. Tuttavia, negli insediamenti informali e nell’area di Unchiprang particolarmente impervia e difficile da raggiungere, anche ricevere un’aspirina può essere complicato.

Alla sua età Fatema dovrebbe essere a scuola, alle prese con il primo amore e i compiti in classe. Invece è sopravvissuta a orrori indicibili e il futuro per lei non significa speranza, bensì paura ed incertezza. Arrivata alla Aid Station racconta la sua storia al team medico che si è preso cura di lei. Un giorno, all’improvviso, il suo villaggio è stato dato alle fiamme e nel trambusto il fratello più grande è stato arrestato. Nel caos degli incendi, ha anche perso i genitori, ma è riuscita a rimanere unita ai suoi tre fratellini di 11, 7 e 4 anni di cui adesso deve prendersi cura fra mille difficoltà. Oltre a loro, le è rimasto un fratello la cui moglie, Hala, ha affrontato il viaggio verso il Bangladesh all’ultimo stadio della gravidanza tanto che ha partorito una bambina poco dopo l’arrivo nell’insediamento di Unchiprang. Qui Fatema, i fratelli e la cognata Hala hanno trovato un altro zio, precedentemente fuggito con la moglie e i suoi sette figli, fra cui la piccola Sadika che la accompagnava nel giorno della visita. Purtroppo, alla gioia di essersi ritrovati, alla felicità per la nuova vita arrivata in famiglia è seguita la morte di Hala che ha perso la vita dopo soli 30 giorni dal parto. Adesso Fatema, a 15 anni, si trova a fare da madre ai 3 fratelli più piccoli e alla nipotina appena nata, mentre cerca di arrangiarsi come può per sopravvivere visto che né il neopapà né lo zio riescono a sostentare tutta la famiglia.

Fatema è solo una dei 720.000 minori censiti dall’UNICEF fra rifugiati e comunità locali bengalesi che hanno estremo bisogno di aiuto per recuperare una vita normale dopo i traumi subiti. È solo una dei minori –per lo più non accompagnati, orfani o separati dalle famiglie- che formano il 60% della popolazione Rohingya nei campi in Bangladesh e di cui circa il 6% arriva gravemente malnutrito dopo il tragico viaggio affrontato. Anthony Lake, UNICEF Executive Director, ha affermato chiaramente “Questa crisi sta rubando loro l’infanzia. Non lasciamo che rubi loro anche il futuro”. Ma la tragica verità è che ogni conflitto, ogni guerra o persecuzione ruba l’infanzia dei bambini che invece andrebbero protetti con le giuste cure mediche e valorizzati tramite percorsi educativi di qualità. Filippo Grandi, Alto Commissario per i Rifugiati, ha recentemente dichiarato che l’esilio dura solitamente 20 anni, vale a dire più di tutta l’infanzia. Questo vuol dire che dobbiamo uscire da una logica di mera sopravvivenza nell’affrontare qualsiasi crisi di rifugiati, conflitto o guerra attualmente in corso per scegliere un approccio globale che privilegi sia il dialogo per una pace sostenibile, sia percorsi alternativi di stabilizzazione.

Fatema*, come le altre migliaia di ragazze, è più vulnerabile ed esposta al rischio di matrimonio e gravidanza precoci, soprattutto qualora rimanesse totalmente tagliata fuori da qualsiasi tipo di istruzione in grado di garantirle autosufficienza. E la sua eventuale indigenza la esporrebbe a enormi rischi, fra cui cadere nelle mani di trafficanti senza scrupoli o divenire vittima di abusi sessuali o lavori forzati. Tuttavia, adesso la priorità assoluta è garantirle tutte le cure mediche necessarie per recuperare la forza fisica ed emotiva e affrontare la vita futura, confortata dalla presenza del team MOAS che, oltre alle medicine e le terapie, riesce sempre a trovare una parola di affetto per ciascuno dei nostri ospiti. Una volta guarita, le auguriamo di poter finalmente sorridere al futuro e di poter diventare libera artefice del suo destino.

L'autrice è Co-Fondatrice e Direttrice MOAS


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