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La bomba atomica e il destino dell’uomo. Rileggendo Karl Jaspers

Davanti al rischio nucleare e alla crescente paura di un conflitto atomico, torna d'attualità la lezione del filosofo tedesco Karl Jaspers

di Pietro Piro

L’incubo che ritorna

Tra tutti gli incubi che ci turbano il sonno, quelli che ritornano con cadenza regolare sono quelli che ci danno più fastidio e ci creano maggiore inquietudine. Sono incubi che ci riportano indietro ai vissuti dolorosi e che non siamo ancora riusciti a superare e a integrare in un ordine superiore. Dopo le elezioni di Donald Trump e la corsa agli armamenti atomici di Kim Jong-un l’incubo della guerra atomica è ritornato a inquietare i sogni dell’umanità.

Saremo annientati da un ordigno atomico? Questa domanda è nuovamente sulle bocche di tutti. In tanti c’eravamo illusi di essere in un’era nuova, più cosciente, più matura. E invece, siamo nuovamente terrorizzati da questa prospettiva terribile. Può darsi che dietro tutto questo agitarsi e mostrare muscoli e missili ci siano abilissime strategie geopolitiche. Lascio agli esperti in materia un giudizio più circostanziato su queste prospettive complesse. Come uomo, non posso tacere di fronte a un atteggiamento irresponsabile, violento, aggressivo, di chi utilizza le armi – e le atomiche in cima alla lista – per realizzare i propri scopi di dominio e di potere. Proprio non riusciamo a far maturare nelle coscienze un radicale rifiuto delle armi e della guerra come strumenti per risolvere i conflitti o – e questo è forse ancora peggiore – per gestire i bilanci di una nazione o di un’élite.

In questo clima di “ansia permanente e generalizzata” torno a rileggere con ammirazione il libro di Karl Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo (Milano, Il Saggiatore 1960).

Libro nato da una serie di conferenze che il medico-filosofo tedesco tenne alla radio nell’autunno del 1956 e che cerca di affrontare col pensiero e nel pensierola situazione-limite (grenzsituationen) in cui si trova l’uomo di fronte a un “arma” che, se utilizzata, potrebbe annientare l’intera umanità. Per Jaspers si tratta di una: «situazione totalmente nuova in cui l’umanità andrà fisicamente in rovina, oppure, l’uomo si modificherà nella sua condizione etico-politica».

Ogni crisi, infatti, – e quell’atomica è la “crisi” per eccellenza – può dare avvio a nuove visioni della realtà a un riposizionamento nel piano delle convinzioni. Di fronte al pericolo estremo può nascere una nuova intensità nelle relazioni umane basate su nuovi valori e impreviste prospettive. Ma la guerra atomica è oggi veramente possibile? Jaspers rispondeva allora: «tutto è possibile, se hanno in mano le redini uomini che, contro ogni buon senso, contro la loro ragione e contro i freni etici che ancora esistono in qualche parte, anche nella maggioranza dei delinquenti, vogliono provocare la fine di tutti nella loro fine. […] Combinazioni di genere fatale possono mettere in moto la sciagura mortale. Il suicidio collettivo non è escluso se i capi si incontrano nel disgusto, nell’odio, nell’indifferenza, nella cieca volontà di annientamento, o anche se uno solo degli avversari cade in questo atteggiamento» (p. 535). Chi ha in mano oggi le redini del mondo? Possiamo avere fiducia completa sul fatto che questi uomini non si abbandonino alla violenza e all’odio? Jaspers ci rimanda sempre e comunque all’uomo e alle sue decisioni: «dipende da lui cosa egli farà e non soltanto da quella casualità di natura. Se noi siamo uomini, dobbiamo prendere su di noi la libertà e con ciò la responsabilità. Non ci è permesso di starcene tranquilli. Infatti, questo rassicurarci è esso stesso un fattore che paralizza le possibilità della libertà, perché la rende disposta ad abbandonarsi a una presunta necessità (p. 540).

Chi non è stato turbato nella sua limpida fede nel progresso, nella tecnica e nella scienza, nell’uomo in genere, da tutti gli eventi tragici che si sono verificati nel secolo ventesimo, è un uomo che non ha messo la sua fede a cimento, che non ha assimilato e sofferto la negatività del proprio tempo e rischia di parlare in astratto di umanità, di scienza, di verità, di progresso, col tono falso e retorico in cui ne parlano i filistei

Remo Cantoni

Pericolo ed esercizio della libertà

In quanto uomini dunque, non possiamo mai stare “tranquilli”, perché l’esercizio della libertà ci espone continuamente alla dimensione del pericolo. Possiamo unicamente cercare di scampare alla distruzione cercando di esercitare una ragione dialogante che non sia ossessionata dalla logica del fare. Logica che «vuole trovare la salvezza attraverso un superamento tecnico della tecnica, quasi che l’agire dell’uomo da cui è richiesta la tecnica potesse ancora esso stesso sottostare a una guida tecnica. Perciò si da l’attesa ottimistica, che la situazione di pace come tale possa essere creata utilmente da sé soli, senza mutamento della vita intera. […] L’uomo deve inserire scienza e tecnica in qualche cosa di più comprensivo. Solo al limite del nostro fare è il compito davvero serio del nostro pensiero. La nostra epoca deve imparare che non tutto è da fare» (p. 4). Non è dunque solo il cieco e forsennato agire che ci permetterà di attingere a nuove forme di relazioni ma un completo cambiamento della nostra visione del mondo che attingerà alla meditazione profonda e alla comprensione dell’essere.

Una nuova morale

Ha ragione dunque Norberto Bobbio quando nella prefazione al libro di Günther Anders, Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki (Torino, Einaudi, 1961), fissa alcuni punti fermi per orientarsi in questa selva oscura: «1. una guerra atomica potrebbe portare all’annientamento fisico di tutta l’umanità; 2. la guerra atomica è un evento possibile; 3. questo evento finale della storia umana non può essere considerato come una alternativa, e quindi come oggetto di scelta fra altri eventi possibili; 4. la constatazione della possibilità dell’evento e l’impossibilità di considerarlo un’alternativa fra le altre, c’impone perentoriamente di prendere in qualche modo posizione contro la continuazione della politica atomica 5. un modo di prendere posizione può consistere nel rendersi conto che la nuova situazione crea nuovi doveri di ciascuno di fronte ai propri simili, una nuova morale» (p. IX). È proprio questo il centro del nostro ragionare: la nuova situazione crea nuovi doveri di ciascuno di fronte ai propri simili, una nuova morale. Non possiamo affidare l’elaborazione di questa morale ai falsi profeti perché come dice Jaspers: «non solo è vano, bensì pericoloso, vivere nell’attesa dei profeti. Infatti, al posto del profeta si fa avanti oggi per i popoli il «capo», che essi salutano come redentore, anche se è solo un cacciatore di topi come quello di Hameln. Essi credono in lui, chiunque egli sia, se ha le qualità del demagogo seduttore e, allo stesso tempo, l’istinto all’astuzia, con cui guida il suo seguito e le masse, così che tutti sono costretti al suo servizio come da una potenza magica. Ma gli uomini oggi non possono essere aiutati da un «capo», bensì solo da loro stessi, se si trovano nella comunità della ragione e dell’autoresponsabilità, e se producono uomini di stato» (pp. 538-539). L’invito di Jaspers è quello di prendere coscienza della situazione del tempo e agire nella direzione della ragione che crea la comunità che resiste.

Un appello agli Americani

Possiamo, allora, rivolgere al presidente Trump e al popolo nordamericano questa esortazione di Jaspers che è di una sconvolgente attualità:

«In America dove oggi tutto viene deciso per il mondo nella realtà politica data, spero nelle antiche forze pie, eticamente radicali. Là, dove già qualche volta avvennero all’improvviso ravvedimento e conversione, ogni Americano, in vista della situazione mondiale, può sentire in essa la responsabilità, prima mai conosciuta, per il corso dell’umanità, il grande alito della storia mondiale e l’unico compito in essa. Allora potrebbe destarsi il grande impulso modificatore, che sottragga l’americano all’ottimismo superficiale, al fariseismo morale, al razionalismo del poter far tutto, e lo svegli a se stesso. Un popolo che fonda il suo stato con saggezza, che ha dato tali grandi uomini di stato, Emerson e James, poeti e teologi di alto grado, che è occidentale e pure più schietto di ogni altro popolo occidentale, poiché ha le radici nella emigrazione e porta in sé la vista aperta e libera sin dal principio, riesce forse a fare la cosa straordinaria, da cui dipende ora la decisione sulla vita e sulla morte dell’umanità» (p. 531).


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