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Le baby gang di Napoli, quello che ancora ci sfugge

Oggi il ministro dell'interno è stato a Napoli, per fare il punto sulla recente ondata di violenza che ha per protagonisti ragazzini piccolissimi. Marco Rossi Doria da oltre 35 anni lavora nell'educazione di ragazzi difficili. Ha cominciato proprio a Napoli e ancora oggi sta seguendo un progetto sperimentale al rione Sanità, con il Miur e il Viminale. Ecco la sua analisi

di Sara De Carli

Dieci ragazzi accoltellati da inizio dicembre ad oggi. Minorenni presi a pugni, a calci, accoltellati da altri minorenni. Un ragazzo accoltellato alla gola, Arturo e uno a cui hanno dovuto asportare la milza, aggredito all'uscita della metropolitana di Chiaiano. E ancora 17 rapine in due mesi, nel Napoletano, fatte da una banda di ragazzi fra cui quattro minorenni. Ragazzi che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, ragazzi che il giudice Nicola Quatrano ha legato addirittura ai militanti della Jihad, per quel «filo sottile ed esistenziale» rappresentato «dalla ricerca della morte». Il Corriere del Mezzogiorno ha raccontato in un articolo che molto bene rende il crescendo di adrenalina che doveva respirarsi ancora sabato notte per le vie di Napoli, il «branco» delle baby-gang: «come si muove, come agisce, come ferisce e come, con spavalderia, sfida le forze dell’ordine e poi sparisce del tutto, mischiandosi alla gente impaurita». Il giornalista è stato per strada, ad aspettare e osservare: «Ogni occasione è buona per far scoppiare la rissa e lo si capisce da come si scrutano gli uni con gli altri, come se la strada fosse un ring dove battersi. […] Picchiare e farlo davanti a tutti, come in un film, peggio che in “Gomorra”. […] Picchiano anche davanti alle forze dell’ordine, senza paura di essere presi perché nessuno può fermare la furia di trenta ragazzini, che agiscono come uno squadrone militare». E poi come la follia è montata, così si scioglie, con tutti i ragazzi in fuga in direzioni diverse, come dissolti nel nulla. Questa mattina in Prefettura a Napoli c’è stato un vertice alla presenza del ministro dell'Interno, Marco Minniti. Al termine sono stati invitati anche Arturo, il 17enne ferito alla gola prima di Natale, che ieri è rientrato a scuola, e sua madre, Maria Luisa Iavarone, che dal giorno dell'aggressione non ha mai smesso di chiedere il coinvolgimento di tutti e ha lanciato un movimento civico "di madri ferite", che rimettano al centro la questione educativa.

Marco Rossi Doria da ormai 35 anni si occupa di educazione di ragazzi difficili, cominciando proprio da Napoli. Collabora con il ministero dell’Istruzione e al quartiere Sanità da tempo segue un progetto sperimentale che sotto l’egida del Miur e del Viminale sta mettendo in campo reali collaborazioni fra le scuole del quartiere, i centri sportivi, le associazioni di terzo settore, la parrocchia…

Cha analisi possiamo fare di questa situazione? Perché a Napoli ci sono state così tante aggressioni, così violente, così ravvicinate?
Il quadro è complesso e va visto nella sua complessità. Napoli ha un problema di presenza dello Stato. Napoli è una grande città, con forti tassi di esclusione sociale, una forte presenza della criminalità organizzata e non, con forme di violenza. Ora c’è chi chiede prevenzione, come se la prevenzione risolvesse tutto e chi chiede repressione, come se la repressione risolvesse tutto. Da tempo immemorabile, in tutto il mondo, è dimostrato invece che le due cose vanno a braccetto: né l’educazione da sola nè il limite da solo funzionano, le due cose non sono antitetiche ma alleate. Serve una “via di mezzo”, non per scelta ideologica ma perché è quello che fa funzionare le cose. Invece ancora una volta la tentazione è quella di dividersi fra chi dice “mandiamo la Folgore” e chi vuole un esercito di maestri.

Le caratteristiche comuni? Sono figli di famiglie non solo molto povere ma "scassate", con figure materne e paterne deboli o inesistenti, che nessun adulto significativo ha mai intercettato. Famiglie e ragazzi che vivono ai margini dei margini

Marco Rossi Doria

Chi sono questi ragazzini, così piccoli e così feroci?
Innanzitutto c’è qualcosa di nuovo. Non sappiamo esattamente cos’è, ma questo fenomeno ha ingredienti che conosciamo ed elementi che ci sfuggono. È qualcosa che si sovrappone solo in parte al modello dei camorristi ed è semplificatorio dire che sono la stesa cosa. Dal punto di vista descrittivo queste sono bande di ragazzini molto piccoli, con alcune caratteristiche comuni: fanno parte di famiglie non solo molto povere ma "scassate", con figure materne e paterne deboli o inesistenti, genitori che non hanno prospettive di impiego né formazione, che abitano ai margini di quartieri e comunità già marginalizzate e visti come marginali da quelle stesse comunità. Sono famiglie e ragazzi che vivono ai margini dei margini. Alcuni di questi genitori sono nelle parti basse della criminalità organizzata o vi sono limitrofi, non hanno nessuna consapevolezza di come di educa un figlio, spesso sono disperati perché non sanno come pagare le bollette e le spese, spesso hanno caratteristiche psicosociali complesse. I figli non vanno a scuola, vivono alla giornata e si coagulano in una banda che non è organizzata con una gerarchia stabile, questa è una cosa diversa dalle bande di 17/19enni che vogliono prendere il posto dei boss in prigione: dobbiamo avere l’onestà di dire che si tratta di una cosa nuova, che ancora non abbiamo compreso. È una specie di gruppo informale che se ne sta senza far niente, gira in motorino, tira tardi e a un certo punto gli salta in testa di fare una cosa, un’avventura, e nel giro di pochissimi minuti si attivano e fanno un disastro terrificante, contro un singolo individuato in quel momento, non scelto prima, uno qualsiasi che si sono trovati casualmente davanti. Questi ragazzi possono avere o no armi, coltelli, mazze, catene, agire a mani nude o con i calci, di tutto. In aggiunta diciamo che alcuni – non tutti – possono avere fatto una specie di mix di birre, canne, altra roba chimica… Diciamo che questi sono quindi conglomerati occasionali di ragazzini molto giovani, che vengono dalla marginalità nella marginalità, che non hanno avuto dal punto di vista psicologico alcuna esperienza della frustrazione regolata, della regolazione emotiva e sostanzialmente – non lo dico per giustificarli – non sanno cosa si deve e si può fare e cosa non si deve e non si può fare. Non sono state intercettati da alcuna figura adulta di riferimento: che sia un nonno di buon senso, una nonna accudente, un parroco, un volontario… A un certo momento diventano una bomba che può fare cose terribili. Questo è, descrittivamente, quello che siamo osservando.

Sono ragazzini che non vanno a scuola, vivono alla giornata e si coagulano in una banda che non è organizzata con una gerarchia stabile. È una specie di gruppo informale che se ne sta senza far niente e a un certo punto gli salta in testa di fare una cosa, un’avventura. Nel giro di pochissimi minuti si attivano e fanno un disastro terrificante, contro un singolo individuato in quel momento, uno qualsiasi che si sono trovati casualmente davanti.

Marco Rossi Doria

Ma come mai così tanti episodi?
Probabilmente c’è stata prima una accumulazione di decine di episodi minori che non sono arrivati a questa gravità e quindi non sono noti ma hanno costituito un humus tale per cui, in zone molte marginali e in minoranze, le vampate hanno luogo. Questo è quel che capisco provvisoriamente. Sottolineerei però che si tratta di una minoranza: eclatante perché è terribile, ma minoranza della minoranza della minoranza. Di positivo infatti in questi giorni abbiamo visto che questi episodi hanno suscitato una forte reazione. Non siamo una città che accetta tutto ciò con indifferenza. La città è stata positivamente attiva, ha visto straordinaria mobilitazione di ragazzi e di genitori non dei quartiere bene ma degli stesi quartieri, genitori a loro volta fragili e insicuri che però si sono mobilitati in sostegno della legalità. Una città indignata, molto preoccupata, che ha accolto le vittime, si è schierata al loro fianco, ha preso le distanze da questa minoranza, migliaia di persone che non vogliono essere identificati con queste minoranze. Dalle scuole, dalle parrocchie, dai centri sportivi, si sono fatti sentire, sono reattivi. È una cosa buona, anche se è vero che ci sono parti che hanno paura di parlare.

Di positivo in questi giorni abbiamo visto che questi episodi hanno suscitato una forte reazione. Non siamo una città che accetta tutto ciò con indifferenza. Servono alleanze che costruiscano luoghi dove è possibile vivere “avventure” e “sfide” positive, alternative, dai 10 ai 25 anni

Marco Rossi Doria

Quali vie di uscita si possono prospettare?
La violenza scende se si crea un sistema che mette insieme delle comunità educanti territoriali. Ma per lunghi periodi, con costanza di azione. Servono scuole, serve formazione professionale – qui a Napoli manca del tutto – stage nel territorio per imparare un’arte, con un artigiano, al fianco di qualcuno che ti passa un sapere che ti dà identità e di cui puoi vivere. Servono politiche attive del lavoro presso i giovani, non solo la scuola. E poi educatori nel territorio, che seguono le situazioni più fragili e a rischio, che significa le famiglie molto giovani e povere, dando supporto alle funzioni genitoriali e educative, che costruiscano nel tempo centri di aggregazione giovanile dove è possibile vivere “avventure” e “sfide” positive su tutto l’arco dai 10 ai 25 anni: sport regolare, riadattare un locale abbandonato, aprire un’attività con i fondi della nuova legge “Resto al Sud” insieme ai miei compagni, a Sanità sta funzionando. La scuola non basta. Il tutto con risorse certe per i prossimi 10 anni. Ora, tutte queste cose, note da tempo, sono attività strategiche, la condizione necessaria per battere anche questi fenomeni di violenza: bisogna farle, ma sapendo che non sono sufficienti, perché come dicevo all’inizio c’è anche qualcosa di parzialmente nuovo in questo fenomeno.

Oltre a questi interventi strutturali, nell’immediato cosa si può fare?
Costruire regia di quartiere, come dicevo di recente anche parlando della lotta alla dispersione scolastica. Serve una scuola più flessibile, più prossima, una formazione professionale vera, flessibile anch’essa, e alleanze forti tra insegnanti e tutor di strada, capaci di avere prossimità con i territori che stanno al limite del limite e facciano da antenne, capiscano quali sono i ragazzini che stanno inoltrandosi oltre il limite e siano in grado di intercettarli proponendogli sfide positive appetibili quanto o più delle sfide negative, dove possano sperimentare altre cose e altre dimensioni di sé. Ovviamente questa proposta non può durare lo spazio di un semestre, deve durare 5/10 anni. Se le politiche pubbliche sostengono l’alleanza della comunità educante, con un investimento sull’educativa territoriale di prossimità fra i più marginali e se tutto questo si unisce a uno sviluppo locale possibile – alla Sanità è avvenuto – nel medio periodo si può pensare di far uscire i ragazzi da queste terribili situazioni. Accanto a tutto ciò ci deve essere non tanto un cambio della legge ma la certezza delle sanzioni, anche non penali: il programma educativo deve essere realizzato davvero, la sua esecuzione deve essere seguita e sorvegliata in maniera forte. E se il ragazzo ha bisogno di aiuto specifico perché ha delle sofferenze specifiche, vanno affrontate anche quelle.

Foto di © Nuccio Goglia/Sintesi


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