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Cari insegnanti, liberiamoci dall’incubo della lezione frontale

Per il pedagogista Daniele Novara è tempo di archiviare una volta per tutte la lezione frontale, figlia dell'idea che insegnare sia spiegare contenuti. «La scuola deve essere un laboratorio non una sala conferenze, perché si apprende nella condivisione. Gli alunni imparano dai compagni, non dagli insegnanti». Un convegno sul tema il 14 aprile a Milano

di Sara De Carli

«Lamentarsi di alunni distratti e che non ascoltano è inutile se si resta arroccati alla tradizionale lezione frontale, a una organizzazione della classe che isola gli alunni fra di loro, a una valutazione nozionistica. Sono i metodi di insegnamento e di apprendimento a dover cambiare»: Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro Psico Pedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (esce domani la riedizione del suo "I bulli non sanno litigare", Bur-Rizzoli), sintetizza così il senso del convegno annuale del CPP, intitolato “La lezione non serve”. L'evento è in programma presso il Teatro Carcano di Milano il prossimo 14 aprile: un sabato per insegnanti ma non solo, per “liberarli” da sterili automatismi del passato e restituirgli il loro ruolo educativo, portando in primo piano i dispositivi pedagogici rispetto a quelli digitali.

Lei dice che “la lezione non serve”. Ma non crede che nella realtà dei fatti nelle nostre scuole la lezione frontale sia già stata superata? La critica alla lezione frontale ormai è molto diffusa…
No, non lo credo affatto. Sono state fatte diverse critiche alla didattica della lezione frontale, è vero, ma le garantisco anche che la realtà quotidiana in molte delle nostre scuole è ancora quella, perché ci sono pratiche implicite che permangono al di là della formalità delle programmazioni o anche delle velleità di alcuni insegnanti. La lezione frontale d’altronde è quasi connaturata alla scuola italiana, che resta una scuola basata sull’approccio idealistico gentiliano secondo cui la conoscenza e quindi l’apprendimento nasce dalla spiegazioni dei contenuti. Da lì purtroppo a livello di pratiche comuni, non scritte, non ci siamo mossi. Vuole un esempio? Pensi alla disposizione dei banchi, il pomeriggio i bidelli li rimettono sempre per file. Però il superamento della lezione frontale è ciò cu sui si gioca il match point per costruire una didattica di qualità.

Qual è allora la novità del convegno?
Il background pedagogico della lezione frontale, estremamente pervasivo, è l’idea che se tu devi insegnare qualcosa a qualcuno glielo devi trasmettere attraverso una spiegazione: io so e ti spiego, tu non sai e mi ascolti. In classe abbiamo messo le LIM ma il concetto non è cambiato molto. A differenza delle scuole di altri paesi europei, il nodo da noi resta questo. Noi vogliamo prendere per i capelli questo nodo pedagogico e sbrogliarlo, offrendo agli insegnanti un convegno che definirei “liberatorio”, per dire forte che possiamo fare a meno della spiegazione frontale, che abbiamo centomila alternative più efficaci, per autorizzarci tutti finalmente a lasciare perdere metodi che sono deprimenti per gli insegnanti quanto per gli alunni, per toglierci di dosso questa polvere del tempo. Non abbiamo bisogno della lectio, liberiamoci da questa ossessione. La scuola non vuol dire parlare agli alunni, è qualcosa di diverso.

Alcuni insegnanti però stanno proponendo da tempo metodi didattici e i dispositivi alternativi alla lezione frontale, penso ad esempio alla ormai famossisima flipped lessons…
Mi scusi, ma una video-lezione cosa cambia rispetto a una lezione fatta in carne ed ossa? È la stessa minestra conservatrice, riscaldata in salsa digitale, non c’è nessun vantaggio. Per di più la flipped lascia soli i ragazzi davanti a una video-lezione ma la scuola è una comunità di apprendimento e l’apprendimento è condivisione, non restare soli davanti a uno smartphone, un tablet o un pc.

Il metodo che lei propone in alternativa alla lezione frontale quindi qual è?
Io lavoro da una vita sul metodo maieutico, che in parte ho appreso da giovane da Danilo Dolci ma poi è stato il cuore di tutta la mia ricerca pedagogica, ho inventato tantissimi dispositivi maieutici per organizzare modalità efficaci di apprendimento. La base è che l’insegnante in classe deve avere la regia: significa che deve scomparire dalla scena scolastica o comunque non avere il ruolo di prima donna. Devono essere gli alunni che lavorano, sono loro i protagonisti. Il segreto è far lavorare gli alunni, non parlargli e non fare lezioni, quello è come dicevo prima l’enorme equivoco gentiliano basato sull’idea che la conoscenza sia un corpus di idee da trasmettere: la nostra scuola superiore è impostata così e anche la scuola primaria che ne era fuori, con il ritorno ai voti numerici è ricaduta nell’equivoco. La scuola deve essere un laboratorio, non una sala conferenze: se assumiamo questa prospettiva, poi le possibilità poi sono tantissime.

Quindi l’apprendimento come un fatto esperienziale e laboratoriale, concreto. Che cosa deriva a cascata da questa partenza differente?
Ad esempio liberiamo i ragazzi e la scuola dall’ossessione che non si deve copiare, perché imparano che si apprende per condivisione, partecipando, non se isoliamo gli alunni uno dall’altro, escludendoli l’uno dall’altro. Il presupposto fondamentale è che a scuola gli alunni imparano dagli alunni, non dagli insegnanti: imparano dalla condivisione, anche dal copiarsi. Copiare non è un grande problema perché il ragazzino impara anche così: il compito dell’insegnante è verificare poi l’apprendimento nell’applicazione, a valle, non nel controllo pedissequo di tutte le procedure. Di certo l’isolamento non è una condizione vantaggiosa per l’imparare: i dispositivi maieutici sono dispositivi sociali, di mutuo insegnamento tra gli alunni, soprattutto dispositivi di problematizzazione, perché si impara dalle domande, non dalle risposte. Invece noi alleniamo i bambini a mettere crocette su presunte risposte esatte.

Lei di recente ha criticato la scelta del Miur di consentire l’uso degli smartphone in classe: non crede che una didattica che parli meglio ai ragazzi di oggi passi anche dal digitale e dalle nuove tecnologie?
Attenzione, io non vedo niente di male nell’uso della tecnologia a scuola, io sono contrario all’uso di una tecnologia di carattere individuale esclusivo. Lo smartphone è un dispositivo individuale di uso esclusivo, è impensabile che averlo in aula non crei una esclusione dell’alunno dal processo di apprendimento condiviso.

E qui arriviamo al sottotitolo del convegno, che vede la scuola come “comunità di apprendimento”. Cosa si vuole sottolineare?
Le neuroscienze restituiscono la dimensione sociale dell’apprendimento: perché la scuola si abbarbica nell’isolare gli alunni? Un esercizio di scrittura collettiva è meglio di uno individuale, bisogna alternare sempre individuale e collettivo, mai fare solo attività individuali. La scuola è il luogo dove l’alunno può fare esperienza delle sue risorse e dove le sue risorse vengono valorizzate in funzione dei processi di apprendimento. Il cuore della scuola è la risorsa dell’alunno, non il suo deficit, la scuola guarda il bicchiere mezzo pieno, non l’errore. Per gli insegnanti sarà una gioia liberarsi dall’incubo di essere “funzionari della crocetta” e tornare al loro ruolo di essere gradi registi dell’apprendimento degli alunni, aiutandoli a lavorare insieme.g

Gli abbonati e i lettori di Vita potranno iscriversi al Convegno pagando una quota di 60 euro invece di 90 euro. È sufficiente registrarsi alla pagina dedicata indicando nelle note “Convenzione Vita.it”. Per maggiori informazioni è possibile scrivere a convegno@cppp.it oppure chiamare il numero 351.0439419

Foto di copertina © DAIANO CRISTINI/SINTESI


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