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Povertà, quel filo rosso che lega Pd e Movimento 5 Stelle

Si intitola “Contro la povertà, analisi economica e politiche a confronto”, l’ultimo libro dell’economista Emanuele Ranci Ortigosa: «Le differenze fra reddito d’inclusione e reddito di cittadinanza non compromettono le affinità nelle impostazioni». In questa intervista il direttore scientifico dell’Irs spiega perché

di Sara Bragonzi

Tra reddito di cittadinanza, di inclusione e di dignità negli ultimi mesi il tema del contrasto alla povertà è entrato nel dibattito della campagna elettorale. Un fatto non scontato visto che secondo le stime europee in Italia sono diciassette milioni e mezzo le persone a rischio di povertà, nessun altro paese ne ha così tanti.

Secondo l’ISTAT un italiano su 12 è assolutamente povero, ovvero non è in grado di vivere una vita umanamente dignitosa, cifra fortemente cresciuta in questi anni di crisi economica ma che sembra ora perlomeno stabilizzata. Tra questi 4.742.000 individui i minori sono 1. 292 mila e i giovani 18-34 anni 1.017.000.

La distribuzione del reddito è fortemente diseguale e il contrasto tra redditi più alti e redditi più bassi sta crescendo. A questo si aggiunge il fatto che la spesa sociale è sempre più squilibrata e penalizza le giovani generazioni a cui vanno solo il 4% dell’insieme delle prestazioni, come dichiara l’INPS.

Da pochi mesi l’Italia si è dotata di una misura generale che prova a contrastare la povertà, il reddito di inclusione, in colpevole ritardo rispetto agli altri paesi europei e con troppo poche risorse. Da questi dati parte l’analisi dell’economista Emanuele Ranci Ortigosa che con l’editore Francesco Brioschi ha appena pubblicato il volume Contro la povertà, analisi economica e politiche a confronto (premessa di Tito Boeri, pagine 176, euro 14).

Presidente emerito e direttore scientifico dell’IRS, Istituto per la ricerca Sociale, e di welforum.it, Osservatorio nazionale sulle politiche sociali, ha insegnato Politica Sociale in varie università e ha partecipato al gruppo di lavoro sul reddito minimo istituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ranci Ortigosa nel volume raccoglie e commenta dati aggiornati, confronta il nostro paese con il resto d’Europa, riassume la faticosa storia delle politiche sociali in Italia dagli anni 80 ad oggi per poi analizzare e chiarire con un linguaggio accessibile le varie misure di contrasto alla povertà arrivando a dare utili indicazioni per future misure sostenibili economicamente che possano finalmente intervenire in modo efficace.

Perché dovremmo preoccuparci della crescita della povertà in Italia?
Dal 2007 , negli anni della crisi, i poveri sono aumentati di due volte e mezzo, sopra tutto fra minori, giovani, famiglie con più figli, immigrati. La situazione è divenuta drammatica: quasi 5 milioni di persone non dispongono cioè di un reddito che l’Istat stima essenziale per una vita umanamente dignitosa. Una persona su dodici che incontriamo per strada è povero, e lo è generalmente solo perché ha avuto la ventura di nascere in una famiglia povera e in un paese, l’Italia, in cui la condizione sociale della famiglia si trasmette da una generazione all’altra, e cambiarla è molto difficile e quindi raro. E sappiamo che l’essere economicamente poveri trascina spesso con se altre povertà: di salute, di casa e ambiente di vita, di percorsi scolastici, di opportunità di lavoro regolari e significative. La difficoltà di tanti poveri, e soprattutto di giovani, di valorizzare le proprie capacità e accrescere le proprie competenze, è criticabile sul piano etico, ma anche in termini strettamente economici, perché non concorre a costruire il capitale umano che è fattore determinante di crescita economica. Disuguaglianza e povertà (due fenomeni diversi ma che spesso si accompagnano, come accade in Italia) nuocciono alla crescita economica, quella che si misura in termini di PIL. Studi internazionali sono arrivati a quantificare anche quanto abbiamo perduto e continuiamo a perdere proprio per questo.

Perché il REI, Reddito di Inclusione non è sufficiente?
Durante la crisi quasi tutti gli altri paesi europei avevano misure che assicuravano a tutti soglie minime di reddito, ma Il nostro paese non ne aveva. Anzi erogava una parte consistente delle proprie risorse assistenziali a famiglie benestanti o ricche, quando metà di quelle in povertà non ricevevano alcun aiuto. Con colpevole ritardo solo nell’ultima legislatura, data la gravità del problema, le insistenze europee, l’aggregarsi di pressioni di organizzazioni sociali e politiche, si è gradualmente costruita e attivata una misura di questo tipo, prima il Sia e poi il Rei, Reddito di inclusione, che con il luglio di quest’anno diventerà universale, cioè interesserà tutte le famiglie povere, senza che nessun altro requisito sia richiesto. Si integrerà il loro reddito ma si dovrà anche concordare con le famiglie interessate un progetto di inclusione per tutti i componenti che necessitino di un sostegno. Non si darà insomma solo un pesce per sopravvivere, ma si aiuterà la famiglia a divenire pescatore, cioè a uscire per quanto possibile dalla marginalità e dalla dipendenza per acquisite più autonomia su diverse dimensioni dell’esistenza.

Ci vorrà tempo per attivare tutto questo, ma ci vorranno anche molto maggiori risorse, perché attualmente si prevede di integrare il reddito solo fino al 75% della soglia di povertà, con livelli di selezione reddituale e patrimoniale molto stretti, e assolutamente insufficienti a sorreggere una emersione dalla marginalità. Anche i limiti di durata posti all’intervento di sostegno economico e sociale rischiano di lasciare in abbandono situazioni ancora critiche e di interrompere percorsi di attivazione difficili, perchè sul terreno della formazione professionale e dell’inserimento lavorativo l’azione di supporto è ancora assai debole e poco integrata. Insomma la direzione di cammino intrapresa è giusta, ma occorre spingersi oltre, investire di più.

La difficoltà di tanti poveri, e soprattutto di giovani, di valorizzare le proprie capacità e accrescere le proprie competenze, è criticabile sul piano etico, ma anche in termini strettamente economici, perché non concorre a costruire il capitale umano che è fattore determinante di crescita economica

Emanuele Ranci Ortigosa

Il reddito di cittadinanza come si differenzia dal reddito di inclusione ora in vigore?
La consistenza e gravità assunta dalla povertà ha fatto si che più forze politiche abbiano formulato proposte per il contrasto della povertà. Il PD ha definito e avviato in questa legislatura una misura di reddito minimo, il Sia, divenuto poi l’attuale Rei che, come ho detto, il luglio prossimo, si aprirà a tutte le famiglie povere. Il M5S dal 2014 ha presentato una proposta di reddito di cittadinanza che, si distanzia dalle teorizzazioni per rientrare nella famiglia europea dei redditi minimi, universalistici ma selettivi solo sul reddito. Infine Berlusconi ha proposto, molto più sommariamente, un reddito di dignità, anch’esso collocabile in tale famiglia, ma assai poco elaborato. Limitandoci quindi alle due prime tipologie, osserviamo che ambedue accanto all’integrazione monetaria, comportano una attivazione con il sostegno di servizi territoriali sociali e del lavoro. Presentano quindi esigenze e connessi problemi di selettività reddituale all’accesso, sia pur diversamente configurata, di valutazione per il sostegno e l’inserimento sociale e/o lavorativo dei beneficiari, sia pur con diverse accentuazioni, e di conseguenti monitoraggi. Di conseguenza, necessitano di strumenti di stima e controllo dei redditi, di valutazione dei bisogni sociali e occupazionali, di accompagnamento e controllo, come quelli avviati per il Rei.

Differenze ovviamente ce ne sono, e anche marcate, come ad esempio la individuazione e selezione dei beneficiari sul reddito netto o sul reddito e patrimonio Isee, la diversa soglia di povertà a cui rapportare l’integrazione del reddito, le condizionalità, il diverso peso e le diverse modalità date per la promozione sociale e l’inserimento lavorativo. Tali differenze non compromettono però le affinità nelle impostazioni, nel senso che si potrebbe passare dall’una all’altra prospettiva senza dover azzerare tutto quanto è stato fatto e senza dovere ricominciare da capo.

Quanto all’estensione e consistenza dell’intervento, e al fabbisogno finanziario per sostenerlo, queste toccano il REI, che deve triplicare le risorse ora dedicate per conseguire le finalità dichiarate, e ancor più toccano il reddito di cittadinanza, tre volte più costoso, dai 15 ai 30 miliardi di euro a seconda delle stime, risorse quindi difficili da recuperare, e certamente non in tempi brevi. Analogo il discorso per il reddito di dignità.

Quali indicazioni si sente di dare al nuovo Governo che dovrà gestire le politiche sociali?
Quanto osservato mi porta a ritenere plausibile, e quindi anche a sostenere, l’esigenza che le principali forze in campo si orientino a non smantellare quanto dopo tanti anni, tante inerzie e negazioni, si è finalmente costruito, passo dopo passo, nel contrasto alla povertà e alle disuguaglianze. Lo si è costruito a fronte di una drammatica situazione sociale e grazie a una pressione senza precedenti tanto culturale che delle organizzazioni che hanno costituito una Alleanza proprio per contrastare la povertà. Una finalità che è di interesse generale del nostro Paese, perché mira a rendere effettivi diritti umani e costituzionali, a consentire a tutti di vivere dignitosamente e utilizzare le loro capacità personali, a accrescere così il capitale umano nelle realtà territoriali e a livello nazionale, e con tutto questo a implementare una crescita economica che richiede nuove energie e nuovi impulsi. Se si potrà evitare la contrapposizione forzata fra denominazioni e slogan per pensare invece a come andare più avanti, superarne i limiti, su un tema di civiltà come questo, allora la nostra democrazia avrà fatto un passo avanti nel praticare una competizione politica non distruttiva, ma almeno in parte generativa di ulteriori progressi. L’obiettivo politico del mio libro è proprio questo.


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