Media, Arte, Cultura

Liberare don Milani

Su don Milani si è costruito negli ultimi decenni un santino, addomesticato e neutralizzato, al fine di renderlo duttile ai bisogni del momento: il pacifismo, la ribellione, la buona scuola. Ma la complessità dell'uomo non tollera riduzioni di sorta

di Francesco Paolella

Gli autori di Salire a Barbiana. Don Milani dal Sessantotto a oggi (a cura di Raimondo Michetti e Renato Moro, Viella, 2017), libro tutt’altro che celebrativo, hanno ragione: la storia di don Milani, le sue parole, la sua stessa vocazione sono state strumentalizzate nel corso degli ultimi decenni in ogni modo, venendo piegate alla propaganda e alla lotta politica.

Ricostruire questi usi di don Milani, della sua figura spigolosa, “scomoda” e così poco catalogabile del resto, permette anche di ripercorrere la storia culturale e politica dell’Italia repubblicana. Uomini “impegnati” come il priore di Barbiana, giustamente accostabile in questo senso a figure come Franco Basaglia e Danilo Dolci, dimostrano quanto sia stata (e sia tuttora) carente la politica italiana di persone autorevoli e “spendibili” come punti di riferimento ideali.

D’altra parte, è indubbio che anche su don Milani si sia costruito negli ultimi decenni un santino, addomesticato e neutralizzato, appunto al fine di renderlo duttile ai bisogni del momento: il pacifismo, la lotta di classe, la difesa della scuola pubblica…

Il “donmilanismo” rappresenta sicuramente un tradimento della vita di quest’uomo così difficile, e che è stato molte cose, per molti versi inconciliabili fra loro (inconciliabili agli occhi di chi ne ha voluto fare una bandiera o una icona come Che Guevara). “Prete rosso”, profeta del centrosinistra, ma anche cattolico intransigente, maestro autoritario… Di don Milani si è detto e si può dire tutto: la sua eredità è rimasta a lungo esposta ad abusi e mistificazioni. Molto amato e molto odiato, don Milani è restato comunque al centro del dibattito politico ed anche di quello ecclesiale. La recente “riabilitazione” ufficiale di don Milani nel mondo cattolico italiano (con la visita del papa a Barbiana) ha rappresentato l’esito di un lungo processo di “pacificazione” attorno alla sua figura, divenuta ormai molto vicina a quella di un santo (certo sui generis, poco “televisivo” e amato soprattutto dai laici).

La storia della fortuna di don Milani, che è poi la storia di tanti fraintendimenti, ha avuto, come si sa, due momenti culminanti: il Sessantotto, con la trasformazione di Lettera a una professoressa a libro-culto nella stagione dei movimenti, e l’epoca id Veltroni e dei tanti pellegrinaggi a Barbiana: in questo come in quel caso, don Milani ha rivestito il ruolo, senz’altro ambiguo, di padre della patria (o dell’anti-patria), oltre che di vero e proprio profeta. La sua voce (la voce di una sacerdote cattolico) è stata ripensata per renderla “digeribile” alla sinistra più o meno rivoluzionaria e, poi, a quella riformista.

Per parte loro, le destre italiane (e quella di orientamento cattolico in particolare) hanno usato don Milani per attaccare quello che consideravano lo strapotere ideologico della cultura marxista e anticlericale in Italia. La seconda Repubblica, gli anni del berlusconismo e del primo leghismo, è stata l’epoca appunto di questa reazione al donmilanismo (a sua volta difeso dalla sinistra in disarmo).

Insomma, quando si parla, a ogni riforma, di scuola, don Milani ritorna; quando si parla di interventi militari, sono le parole di don Milani che si citano in parlamento. Ma non è questa l’eredità migliore di quella sua esperienza pastorale così originale e, per molti versi, ancora oggi urticante.

Bisogna continuare a studiare don Milani – e la recente pubblicazione del Meridiano di Mondadori aiuta molto in questo senso – e ripensarlo criticamente. In questi anni di smarrimento e meschinità, la vita di quel prete potrebbe significare ancora qualcosa, e anzi molto.


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