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Cinquant’anni del Ciai: «l’adozione è ancora da pionieri»

Il Centro Italiano Aiuti all'Infanzia celebra i suoi 50 anni. Sono stati i primi a fare adozioni internazionali in Italia, creando una prassi che venne poi riconosciuta dalla legge. Ripercorriamo la sua storia con Liliana Gualandi, una delle fondatrici e Valeria Rossi Dragone, che ne è stata presidente per 24 anni

di Sara De Carli

Quattro giorni di festa, dal 28 aprile al 1° maggio, a Gabicce Mare, per celebrare il 50° anniversario di CIAI, Centro Italiano Aiuti all’Infanzia. Ci saranno le famiglie, i bambini (anche quelli ormai adulti), gli operatori e i rappresentanti di tanti Paesi del mondo con cui il Ciai ha lavorato: Colombia, Cambogia, Burkina Faso, Costa d’Avorio e India. Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha scritto per CIAI una lettera, che verrà letta in apertura dei lavori.

CIAI-CENTRO ITALIANO AIUTI ALL’INFANZIA nasce infatti nel 1968 per iniziativa di un gruppo di famiglie che decisero di accogliere come figli bambini abbandonati che vivevano in Paesi lontani: è stata cioè la prima associazione in Italia ad occuparsi di adozione internazionale. Tra i fondatori del Ciai, cinquant’anni fa, c’erano Liliana Gualandi e il marito, sensibili ai problemi e alle necessità dei bambini. Insegnante lei, giudice onorario del tribunale dei minori di Milano lui, genitori adottivi a loro volta, da tempo lavoravano con Anfaa nel campo delle adozioni nazionali. «Sulla spinta della carestia in India, cominciammo a pensare che i bambini soli sono bambini soli in tutto il mondo», racconta la signora Gualandi.

Per prima cosa fecero una indagine nazionale, «per capire se ci fosse un razzismo nei confronti del diverso, di immigrati a quei tempi non ce n’erano. Non risultò. A quel punto iniziammo a lavorare a livello giuridico e contattare le autorità estere per capire se la nostra idea era percorribile. L’India faceva già adozioni con i Paesi del nord Europa, noi eravamo ancora visti come un Paese povero… Costruimmo una prassi insieme alle autorità straniere e italiane, perché per noi fin dall’inizio era chiaro che il bambino adottato all’estero doveva avere gli stessi diritti del bambino adottato in Italia. Si faceva domanda per l’adozione nazionale dando disponibilità anche per un bambino straniero e abbiamo sempre chiesto che il tribunale desse l’idoneità alla coppia esattamente come avviene nell’adozione nazionale, come tutela». All’epoca l’adozione era solo quella nazionale e anche quella era un contratto fra due adulti e un minore, che non prevedeva l’acquisizione di nonni, fratelli, eredità… «lavorammo come Ciai e come Anfaa per avere l’adozione legittimante, che desse al figlio adottato tutti i diritti di un figlio legittimo». La procedura poi ratificata dalla legge 184 nasce cioè nella prassi del Ciai.

Liliana andò in India nel 1968 trovando una situazione «incredibile»: lei stessa vide morire 19 bambini in un solo giorno, per il morbillo. Tornò con 36 segnalazioni di bambini adottabili: «la più pronta e generosa nell’accoglienza fu la Sicilia», ricorda Liliana. Subito dopo venne la Corea. «Ci aspettavamo una reazione più guardinga, non c’è stata. Adottare un bambino con caratteristiche somatiche diverse significava avere in casa un figlio «che portava scritto in faccia “sono stato adottato”. Abbiamo fin dall’inizio creato forti legami con le coppie nel post adozione, le ho in mente ancora tutte. E andavamo spesso nei Paesi per verificare le situazioni». Cinquant’anni dopo, Liliana è orgogliosa che il Ciai abbia «mantenuto la rigidità nei prinicipi: i bambini adottabili devono essere realmente in stato di abbandono e la coppia deve essere realmente in grado di far fronte ai suoi bisogni, su questo so che oggi come ieri non si transige e lo trovo molto bello».

Un’altra persona che ha fatto la storia del Ciai è Valeria Rossi Dragone, due volte mamma adottiva con il Ciai, che ne è stata per 24 anni presidente, dal 1987 al 2011. «Ho visto l’espansione del Ciai, quando sono diventata presidente questa era una piccola associazione in cui lavoravano tre persone. Un passaggio importante è stato certamente nel 1998, quando siamo diventati una ong, cambiando anche nome». Già, perché inizialmente Ciai stava per Centro Italiano Adozioni Internazionali e solo a un certo punto della sua storia è diventato Centro Italiano Aiuti all'Infanzia, come oggi lo conosciamo. «Abbiamo sempre avuto nei Paesi un’attenzione e un impegno nella prevenzione dell’abbandono, fin dall’origine. Non eravamo lì solo per le adozioni, ma per occuparci dei bambini e fare in modo che potessero rimanere nella loro famiglia, il più possibile. È stato un passaggio travagliato, inizialmente alcuni soci si lamentavano perché vedevano dare più importanza alla cooperazione che all’adozione, lo sforzo è stato sempre di far capire che le due cose sono complementari», spiega Valeria. In India per esempio «già negli anni 70-80 abbiamo favorito la nascita di un’associazione di famiglie adottive indiane, sollecitando l’adozione nazionale. Lo stesso abbiamo fatto in Burkina. Non abbiamo mai fatto adozioni che non fossero più che corrette, abbiamo evitato adozioni pur di non farle in modo scorretto».

Cosa vuol dire essere pionieri nelle adozioni internazionali oggi, come lo siete stati cinquant’anni fa? «Io penso che l’adozione sia ancora qualcosa da pionieri. Nel 1979 mia figlia era l’unica con la pelle scura in paese, c’era curiosità. Oggi questo è più sfumato ma sta crescendo una paura del diverso inaspettata. Inoltre nelle coppie c’è più consapevolezza delle storie serie, a volte pesanti, che i bambini portano. Questo aspetto rende la decisione più matura».


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