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Personal fundraising, la nuova frontiera della donazione

È una delle cinque nuove rotte del fundraising mappate nel nuovo numero di VITA. Sono individui che "ci mettono la faccia", chiedendo soldi a sostegno di un progetto sociale, prevalentemente sfruttando il digitale. 6mila italiani l'hanno già fatto su Rete del Dono, raccogliendo 6 milioni di euro. Chi sono? Avere successo è facile come sembra? I consigli di Valeria Vitali ai personal fundraiser e alle organizzazioni non profit

di Sara De Carli

C’è l’explorer, che lo fa perché ama sperimentare tutto ciò che è nuovo: lo fa per festeggiare una ricorrenza e non ripete quasi mai. C’è il socializer, che lo fa prevalentemente perché raccogliere fondi per una buona causa ha un elemento di divertimento e di gioco, che gli permette di socializzare. Poi c’è l’achiever, con una forte motivazione personale. Infine il killer, che la vede come una sfida personale e che ha spesso una forte coinvolgimento con la organizzazione di cui sostiene la buona causa. Sono questi i quattro profili dei personal fundraiser, ovvero individui che si fanno ambasciatori di una buona causa, invitando i propri amici a donare e donando loro stessi per primi tempo, risorse, relazioni. I costi sono bassissimi, i risultati possono essere sorprendenti. Il personal fundraising una delle cinque nuove rotte del fundraising mappate nel nuovo numero di Vita.Mission Bambini ad esempio ha iniziato nel 2016 a fare campagne di raccolta fondi con i personal fundraising: hanno già raccolto 150mila euro attraverso una cinquantina di ambasciatori e nel 2017 con #GivetheBeat hanno vinto la prima edizione del Digital Fundraising Award. Nella stessa occasione una menzione speciale è andata a Enrica Gironi, una volontaria della comunità ZeroSei di Fondazione L’Albero della Vita: quando il pulmino della comunità si è rotto, lei ha deciso di metterci la faccia, cercando fra i suoi contatti i soldi necessari per comprarne uno nuovo: ha raccolto quasi 12.500 euro e così oltre al pulmino la comunità adesso ha un’automobile. Le persone hanno risposto perché si fidano di lei.

Non sono eccezioni: più di 6mila italiani si sono già messi in gioco come personal fundraiser sulla piattaforma leader nel settore, Rete del Dono, che ha debuttato nel 2011. Hanno fra i 30 e i 60 anni: la padronanza del digital ormai è trasversale e anche chi dona per un terzo è over55. Rete del Dono conta quasi 1.700 progetti finanziati, con 100mila donazioni e 6 milioni di euro raccolti. Il 48% delle donazioni arriva da mobile e ogni progetto raccoglie in media 750 euro.

Valeria Vitali è la cofondatrice di Rete del Dono. Insieme alla socia Anna Maria Siccardi ha scritto il volume Crowdfunding e personal fundraising: la nuova frontiera del dono, in uscita a maggio per EPC. In questa intervista spiega cos’è il personal fundraising e chi lo può fare, ma soprattutto quali sono le attenzioni che un’organizzazione non profit deve avere quando decide di iniziare ad avere dei personal fundraiser.

Il personal fundraising ha costi bassi e sta dimostrando di avere ottime potenzialità. Cosa c’è alla base del suo successo?
​Intanto il personal fundraising non è una novità. Esiste dal 2000, sostanzialmente da quando è nato JustGiving, nel 2000, loro sono incredibili. Il mercato nei paesi anglosassoni è diverso, il concetto stesso di dono è diverso, spesso lì il cittadino vuole dare il suo contributo come forma di impegno civile, le persone sono più attive, non si limitano solo a donare ma partecipano attivamente alla vita dell’organizzazione… Però il concetto del “metterci la faccia” è vecchio come Noè, diciamo che il crowdfundindg – un termine che ha iniziato a circolare nel 2012/2013 – è una parola nuova per dire un mestiere antichissimo, pensiamo alla chiesa, il Duomo di Milano è stato costruito con le piccole donazioni dei fedeli. Il digital ci dà l’opportunità di raggiungere tutti, di condividere contenuti più facilmente, allargando il nostro raggio d’azione: così anche raccogliere fondi si può fare in modo più rapido, ma la logica è la stessa. Noi siamo nati nel 2011, ci siamo ispirati a JustGiving: siamo partiti facendo solo personal fundraising e poi abbiamo allargato al crowdfunding. Il personal fundraising è una forma “individuale” di crowdfunding in cui “l’individuo” sostenitore diventa ambasciatore di una buona causa, donando e invitando i propri amici a donare. Ci sono forti correlazioni tra il tema della gamification e il personal fundraising: certamente è non un gioco ma le persone lo fanno anche perché è un modo simpatico e divertente di coinvolgere partenti e amici attorno al progetto di solidarietà scelto.

Quali sono i numeri su Rete del Dono?
Rete del Dono ha raccolto ad oggi 6 milioni di euro. Gli eventi sportivi sono un grande driver per arrivare alla massa critica, che nel nostro paese non abbiamo ancora raggiunto. La donazione media è di 72 euro, la moda – ovvero la donazione fatta più di frequente – è 16 euro. La media del raccolto, per ciascun progetto, è attorno ai 750 euro. Le donazioni sono complessivamente 100mila, di cui la metà fatte da mobile: il 9 maggio con PayPal e Doxa presentiamo la quarta edizione di Donare 3.0, che monitora la propensione a donare degli internauti e ci aspettiamo una crescita ulteriore. Fra il 2016 e il 2017 la percentuali di donazioni sul portale fatte da mobile è passata dal 24 al 48%.

Chi sono le persone che si mettono in gioco come personal fundraiser?
Il personal fundraiser è un donatore. Donatore di tempo, di fondi, di relazioni. Grazie a lui l’organizzazione raggiunge persone che non la conoscevano, se tu onp sei brava a coltivare questa relazione puoi ampliare di molto i tuoi contatati. Ci sono persone fidelizzate alla buona casa, come Antonio Brienza, un pediatra che ha scelto un’organizzazione e l’ha sostenuta per cinque anno, con l’obiettivo di aprire un ambulatorio pediatrico in Madagascar, raccogliendo più di 63mila euro. Altri invece sono fedeli al dono ma preferiscono attivarsi a sostegno di cause sempre diverse. Ovviamente c’è anche chi non ripete l’esperienza: in percentuale explorer e socializer sono di più, ma la raccolta fondi percentualmente la fanno più gli altri, quelli che hanno un ingaggio forte con l’organizzazione e la buona causa. I personal fundraiser sono persone tra i 30 e i 60 anni, un buon range di età, perché il digitale è alla portato ormai di tutti: proprio le persone più mature spesso raccolgono di più perché hanno amici con più possibilità economiche.

Quali sono le occasioni che riscuotono maggior successo?
L’impresa sportiva su Rete del Dono indicativamente ad oggi ha generato una raccolta fondi fra i 2,5 ai 3 milioni. Funzionano bene anche i matrimoni, i compleanni, i battesimi e stanno iniziando a funzionare anche le raccolte fondi in memoria di una persona cara, tipo “non fiori ma opere di bene”.

Ci sono progetti che a livello di contenuto hanno più successo di altri?
Il settore salute e ricerca va molto bene, non solo sul digitale. Poi il sostegno a persone con disabilità, l’assistenza sociale, l’ambiente. L’elemento della vicinanza territoriale non impatta, il donatore che risponde a un appello di un personal fundraiser dona per un atto di fiducia nella persona che glielo chiede, non approfondisce più di tanto il progetto: il ragionamento è che mi fido di te, se tu hai scelto quel progetto è sicuramente buono.

Che cosa dire a una ONP che vuole partire con il personal fundraising?
Alle onp dico sempre di partire dal porsi una domanda: “ne ho le forze?”. Se faccio una campagna, la faccio perché abbia successo, quindi devo chiedermi se ho le forze per avviarla. Faccio sempre il paragone con maratona: se io non mi alleno, non la faccio. Così la raccolta fondi. Ci devono essere dei presupposti. Prima di partire la onp deve fare un digital check up, per capire qual è la sua salute digitale. Ho un sito o ne ho uno barcollante? Sono sui social? Come spiegare al personal fundraiser come attivarsi in modo efficace sui social se io non lo so fare per primo? Devo dargli dei suggerimenti, devo essere in grado di sostenerlo, di ringraziare sui social, di condividere sui social, far vedere cosa sta facendo il personal fundraiser: se non ho i canali per portelo fare… diventa tutto molto complicato, perché ha tutto un altro valore se l’onp è vicina al personal fundraiser e valorizza ciò che lui sta facendo. Inoltre l’onp deve iniziare a fare anch’essa un po’ di crowdfunding: nella maggior parte dei casi il personal fundraiser non è slegato dal crowdfunding, l’onp ha un progetto attivo, online, che sta promuovendo e su cui parallelamente coinvolge i personal fundraiser. Certo, ci sono situazioni in cui un personal fundraiser corre da solo, ma è meno frequente.

Il personal fundraising funziona quando…
C’è una presenza digitale della onp, il successo dipende da quanto l’onp sa presidiare il web, ha una community aggregata con cui comunica e comunica regolarmente con i canali digitali. Se sono in grado di fare queste cose, ci provi. Altrimenti no, prima devo aggiustare la mia salute digitale.

Ovviamente coinvolgere gli amici nella donazione può essere facile la prima volta, ma dalla seconda volta diventa più faticoso… quali consigli?
Se tu hai aggiornato i tuoi amici sulla destinazione dei fondi, le persone magari donano di nuovo: la rendicontazione è fondamentale anche se naturalmente la prima volta è più facile. La ricompensa invece non impatta: l’80% dei donatori afferma che non avrebbe donato di più se ci fosse stata una ricompensa di suo interesse. Questo lo diciamo sempre chiaramente alle onp, di fatto la persona dona per sostenere un progetto di solidarietà, non per avere un ritorno personale. La ricompensa funziona nel crowdfunding sul prodotto o di equity, ma sulla solidarietà non fa la differenza. Per questo suggeriamo sempre di fare una riflessione attenta sulla reward, se l’investimento è piccolo, ma se ci devi mettere energie e risorse ha poco senso perché il donatore non è più contento, non la sta cercando.

Una forma di fundraising a bassisimi costi e ad alta resa: è corretto?
I costi di startup sono bassi, ma non è che non ci siano costi: devi investire tempo risorse per pianificare la campagna e organizzare gli struemnti, questo aspetto non va sottovalutato. Certamente sono costi che non sono paragonabili al direct marketing, ma non è vero che non costa niente: serve una risorsa che segua la campagna, che ne sia l’anima, senza un project manager è difficile che si arrivi all’obiettivo, perché ovviamente non basta mettere online una campagna perché la campagna abbia successo. Tra l’onp e i personal fundraiser ci deve essere gioco di sponda, l’onp deve seguire i suoi personal fundraiser, tenerli aggiornati, dare loro visibilità, intervistarli, rilanciarli… occorre coltivare la relazione con il personal fundraiser che se si sente amato e apprezzato è incentivato a ripetere l’esperienza. In questo modo l’organizzazione ha visibilità attraverso altri, non in maniera autoreferenziale: tutti sappiamo quando valga fare branding avendo un ambasciatore.

Dopo i consigli per le ONP, quali sono invece i suoi consigli per i personal fundraiser?
Una mail non basta, ne servono almeno tre mail: non abbiate paura di chiedere. Dico tre volte perché magari la prima mail è arrivata nel momento sbagliato, uno non ha donato non perché non vuole farlo ma solo perché se ne è dimenticato. L’altro consiglio è donare per primo, dare il buon esempio, la prima donazione che si deve vedere sulla pagina è quella del personal fundraiser, che così dimostra di credere nel progetto. Importante è la rendicontazione, aiuta tantissimo e nello stesso tempo ricorda ancora una volta la possibilità di donare. Immagini e video sono fondamentali e le scommesse – farò questo se raggiugo questo obiettivo parziale – coinvolgono molto.

Quanto crescerà il personal fundraising?
C’è uno spazio di crescita importante e nella misura in cui le onp si avvicinano al digital ci sarà ancora di più. Noi rispetto ad altri paesi non siamo così puntuali e programmati e questa mancanza di sistematicità nell’affrontare il fundraising è un minus per questo strumento che più il mercato è maturo meglio funziona.


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