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Economia & Impresa sociale 

Ideali che nutrono la coscienza del mondo

Si è tenuta lunedì 4 giugno la serata di presentazione della Fondazione Cernusco SMS (Solidarietà, Mutualità, Sussidiarietà). Il professor Luigino Bruni ha introdotto il tema del "capitale narrativo" ovvero la necessità, per il Terzo settore, di capire su «quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo»

di Luigino Bruni

Si è tenuta lunedì 4 giugno la serata di presentazione della Fondazione Cernusco SMS (Solidarietà, Mutualità, Sussidiarietà). Il professor Luigino Bruni, partendo da un suo importante articolo pubblicato il 12 novembre scorso su Avvenire, ha introdotto il tema del "capitale narrativo", ovvero la necessità per società civile e Terzo settore, di capire su «quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo». Pubblichiamo una parziale trascrizione del suo intervento.

Le civiltà e i popoli hanno un ciclo di felicità. Si parte da momenti in cui la felicità pubblica prevale su quella privata. Poi si ha una caduta, inizia un declino e ad affermarsi è la felicità privata. In un tempo come il nostro dove sembra che “bene comune” sia una parola logora, mettersi assieme per costituire una fondazione in una città e, di conseguenza, dar luogo a uno spazio e a un momento di felicità pubblica, è una cosa molto importante. È una festa.

Radici nella parola

Per chi conosce la botanica, le radici non sono il passato, sono il presente. La radice è ciò che ci fa vivere oggi e domani, non è ciò che ci fa vivere ieri. Alla base di queste radici ci sono ideali. Ideali che non vanno intesi in modo ideologico. L’ideologia è la malattia. L’ideologia è la nevrosi degli ideali.

Gli ideali sono voglia di vita e di futuro. Le generazioni che ci hanno preceduto volevano vivere. Volevano che i figli vivessero e, soprattutto, fossero felici. L’antica legge al cuore della civiltà occidentale era questa: la felicità più importante non è la mia, ma è quella dei figli. Io mi sacrifico per loro. Le persone che ci hanno preceduto – i nostri nonni e le nostre nonne, i nostri padri e le nostre madri – avevano una grande resilienza, sapevano vivere e morire. Sapevano gestire le grandi crisi della vita. Nella vita.

Il noi prima dell'io

Le persone che ci hanno preceduto avevano un grande senso del noi. Il noi è la dimensione che viene prima dell’io. Potevano discutere, litigare, persino fare a botte ma prima di tutto c’era il mito fondativo della concordia civile. Pensiamo a Peppone e don Camillo: litigavano, certo, ma quando esondava il fiume andavano assieme a porvi rimedio. C’era una base civile, la fraternità, che fondava la concorrenza. Se manca una base civile tutto diventa guerra. Guerra politica, guerra economica, guerra fratricida.

Accanto a tutto questo c’era la parola. Dare la parola era una cosa tremendamente seria. Molti fra i nostri nonni non sapevano nemmeno scrivere e tutto si svolgeva nella parola. In un mondo dove tutte le parole sono diventate “bufale”, questo semplice fatto – che la parola impegni o, come nel matrimonio, impegni per la vita – è sconvolgente.

Questa regola aurea (“la felicità è prima di tutto la felicità dei figli”) e questi valori (la concordia, la fedeltà alla parola data) ci hanno fatto volare. Hanno dato vita e forma a ciò che chiamiamo "il mutualismo".

La rendita parassitaria

Ciò che sta avvenendo oggi è una rapidissima caduta. Viviamo senza vivere e moriamo senza un senso. La felicità pubblica non c'è più o, comunque, viene sempre dopo la ricerca di quella privata. Campiamo di rendita. E che cos’è la rendita? La rendita è una malattia parassitaria, tipica dei paesi latini: iniziamo con i profitti e, poi, ad un certo punto ci fermiano e consumiamo i profitti di ieri. La rendita è il consumo del profitto di ieri, senza che se ne generi oggi. Ma attenzione: la sindrome parassitaria porta alla morte. Tantissime realtà del Novecento sono scomparse così. Anche il mutualismo scomparità?

Quando ci decideremo a superare questa dimensione della rendita che ha ucciso cooperative, imprese, società e paesi? Per farlo dobbiamo cambiare le risposte storiche, tenendo restando fedeli alle domande. Se ci affezioniamo alle risposte, ci dimentichiamo delle domande. Don Bosco ha fatto nascere scuole, oratori per ragazzi poveri di Torino. Se vogliamo essere fedeli alle domande di don Bosco e non paralizzarci sulle risposte, dobbiamo tornare per strada, non far scuole in cui vanno solo i ricchi.

Una crisi di domande

La crisi che attraversiamo è crisi di domande, non di risposte. Ed è una crisi legata ai capitali narrativi. Il mondo è cambiato velocemente, in vent’anni c’è stata un’accelerazione inaudita. I codici simbolici sono cambiati profondamente. Un comunista che in vita sua non era mai entrato in chiesa, nemmeno per dei funerali, sapeva che cosa avveniva lì dentro. Oggi, quando un mio studente passa accanto a una chiesa, ignora che cosa vi accada. Si è spezzata una catena lunga secoli, una catena che ci ha permettesso di capirci. Quando oggi proviamo a raccontare le cose più belle a un figlio, non riusciamo a farlo, ci mancano i codici. Manca il linguaggio. Mancano i riferimenti. Questa si chiama crisi narrativa.

Ecco perché dobbiamo raccontare le cose in un modo diverso. Quando vogliamo raccontare le cose con un linguaggio che non è più lingua comune, gli ideali si trasformano inevitabilmente in ideologia. L’ideale è semplice, l’ideologia è complicata. L’ideale è popolare, l’ideologia è d’élites. L’ideale è produzione, l’ideologia è consumo e rendita. L’ideale ti porta ai poveri, l’ideologia ti porta a stare con i nemici. Oggi abbiamo pochi ideali e molta ideologia. Gli ideali del Novecento sono diventati ideologia.

L’albero e gli ideali

Prendiamo il mondo delle piante. Ciò che sembrava molto stabile, molto noioso sono invece esseri molto intelligenti. Uno studioso, Stefano Mancuso, ci ha mostrato come le piante ricordano, comunicano, decidono, respirano, vedono. Come noi, ma senza organi. È un modello vegetale che potremmo applicare anche al capitalismo. Che cosa accadrebbe se al capitalismo applicassimo, anziché il modello animale, quello vegetale? L’impresa, per esempio, segue un modello animale: cervello, cuore, mani, gerarchia, organi centrali o periferici. Le piante, al contrario, non hanno gerarchia. Vedono con tutto il corpo. Sentono con tutto il corpo. Respirano con tutto il corpo. È molto più difficile uccidere una pianta di quanto non sia uccidere un animale.

Virtù vegetali

Le piante sono sussidiare, mutualistiche e solidali.

Sussidiarie: quando una foglia viene attaccata da un insetto non arriva un ordine dal cervello – che non c’è – ma la foglia stessa produce una sostanza per cicatrizzarsi o, se non ce la fa, interviene la foglia accanto. È sussidiaria perché si parte dal problema e si risale fino al bosco. Se non ce la fa nemmeno la pianta, è il bosco che interviene.

Solidali: il mutuo vantaggio è il vantaggio del bosco. Uno scienziato tedesco ha tagliato tutte le radici che legavano l’albero alla terra, ma ha lasciato quelle che lo legavano alle altre piante. Passati quattro anni la pianta era ancora là, come se nulla fosse accaduto, nutrita dalle altre piante e dal bosco.

Le cooperative sono delle piante. Ogni socio è al centro, tutta la pianta respira. Quando le cooperative hanno imitato gli animali sono fallite. Le cooperative sono sopravvissute nella misura in cui sono rimaste piante e respiravano con tutto il corpo. Bastava un cooperatore vivo perché la cooperativa potesse risorgere. Come dice il profeta Isaia: tagliate il tronco e un nuovo germoglio spunterà. Le cooperative sono vive finché sono più piante che animali.

Mutualistiche: al di là delle piante, la mutualità è una parola chiave del mercato. Il principio del mercato non è né l’egoismo, né tanto meno l’altruismo. È il mutuo vantaggio ovvero la reciprocità. Le cooperative hanno colto qualcosa che è molto più generale di loro. Hanno colto lo spirito del mercato, inteso come network cooperativo.

La competizione, in questo senso, è una cooperazione che si attua competendo. Non è un principio di guerra preventiva di tutti contro tutti. L’imprenditore è uno spirito cooperativo. L’imprenditore che entra sul mercato per distruggere i suoi avversari fallisce.

La lettura corrente sembra suggerirci altro. Ma è sbagliata. Perché sbagliamo a leggere i fenomeni? Perché tendiamo a leggerli come giochi a somma zero: o io o lui. Invece dovremmo leggerli come giochi cooperativi. O siamo buoni o siamo egoisti… no. Il punto è il mutuo vantaggio. La gente che fa cose insieme fa il mercato e il mercato è un grande network cooperativo. Il mercato è questo.

Il punto è in quale frame leggiamo i problemi: se li leggiamo nell’opposizione “egoismo-altruismo” è tutto finito. Se invece li leggiamo nel principio cooperativo, possiamo tornare a investire in un capitale narrativo nuovo.

Quando si fanno convegni sulla povertà ci sono il politico, l’esperto, l’imprenditore. Quando il povero è presente lo è in maniera folcloristica, dovendo portare la propria esperienza di dolore. Ma il primo e vero competente, ossia portatore di pensiero, è proprio il povero. Quando faremo convegni sulla povertà dove a prendere la parola saranno i poveri avremo iniziato a rovesciare le risposte. Tornando a porre le domande giuste. Ma per fare questo dobbiamo rovesciare il pessimismo antropologico che sta ammorbando il nostro sguardo. Serve uno sguardo buono sulla gente.


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