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Dalle fabbriche alle case: i robot cambiano strada

Dialogo con Maria Chiara Carrozza, già ministro dell’Istruzione e rettore della Scuola Superiore Sant’Anna, oggi direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi: «I robot domestici non saranno umanoidi, ma robot da tavola con capacità cognitive e di ascolto»

di Sara De Carli

Viviamo in una nuova era, quella in cui i robot escono dalla fabbrica e vengono ad abitare in mezzo a noi, nelle nostre case, nelle strade, dentro il nostro stesso corpo. La rottura è questa: non i robot dell’industry 4.0 ma i robot sociali. Il tema vero non sono “i robot”, ma “i robot e noi”. I robot e noi è il titolo del nuovo libro di Maria Chiara Carrozza (edizioni il Mulino), un viaggio nel futuro dell’umanità. Bioingegnere, ex ministro all’Istruzione, ex rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, la professoressa Carrozza dall’inizio del 2018 è il nuovo direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi.


La vera rivoluzione 4.0, lei dice, è la robotica sociale. Che cos’è e perché?
Secondo l’International Federation of Robotics ci sarà un’esplosione nel triennio 2018/2020 dei robot per l’intrattenimento e l’uso domestico e personale, con 42 milioni di robot che stanno per essere venduti. I robot per l’assistenza di anziani e persone con disabilità sono uno dei mercati più promettenti dei prossimi vent’anni. I robot domestici non sono quegli assistenti umanoidi che ci si immagina: saranno più probabilmente robot da tavolo, con meno capacità motorie ma con capacità operative, cognitive e di ascolto, potranno suggerire ricette, ricordare l’ora delle medicine, controllare la domotica dell’abitazione. La discontinuità è che i robot sociali non sono utilizzati da professionisti formati ad hoc, come nell’industria, ma da persone qualunque: sarà robotica di consumo.

Quali sono i trend?
Da un lato i robot collaborativi, dall’altra i robot indossabili. Avremo un esoscheletro, una tuta, che nell’ambiente di lavoro darà potenza alla persona per alleviarne la fatica o per contrastare le malattie usuranti, mentre al domicilio potrà essere indossata anche solo qualche ora al giorno da un anziano o da una persona paralizzata, che potrà alzarsi dal letto, camminare, uscire di casa, fare la spesa… La teleriabilitazione eviterà di far spostare le persone fragili da casa, l’assistenza sul territorio potrà aumentare grazie alla robotica, mentre in ambito di prevenzione — qui pesa più la tecnologia che la robotica — il monitoraggio di alcuni marcatori o l’analisi del movimento può portare a diagnosi sempre più precoci.

E i temi cruciali su cui occorre porre attenzione, in questo momento storico?
Il tema cruciale è la sicurezza sul lavoro. C’è molta preoccupazione sul rischio di sostituzione dell’uomo con i robot, ma l’automazione è anche sicurezza. Nella sanità e nell’assistenza, in particolare, trovo difficile pensare che il robot possa sostituire il medico o il terapista. È vero però che in questo momento è importante lavorare avendo chiaro qual è la finalità dell’inserire la robotica nella sanità o nella riabilitazione: per Fondazione Don Gnocchi l’obiettivo non è aumentare la produttività del servizio ma aumentarne la qualità, che significa ad esempio migliorare le valutazioni funzionali del paziente. Non lo si fa per avere meno terapisti.

Molte tecnologie probabilmente sono mature, ma il passaggio alla soluzione, “al letto del paziente” non è scontato. Inoltre l’innovazione più alta non necessariamente è quella più impattante per il paziente. Come si compone questo tema del technology transfer, anche per concentrare le risorse dove è più utile?
Uno dei compiti degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs) è proprio validare e valutare queste tecnologie con i pazienti, sperimentare per primi i risultati scienti ci con l’obiettivo di traslarli a tutto il sistema sanitario nazionale…


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