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Marketing d’azzardo: come ingegnerizzare le abitudini e costruire dipendenza

Le pubblicità dell'azzardo di massa sono fenomeni particolarmente invasivi di biomarketing. La pubblicità dell'azzardo non è "informazione", ma manipolazione e la fidelizzazione del cliente confina con la costruzione di addictions

di Marco Dotti

Ciò che vediamo, nello scontro che in queste ore si sta consumando sul tema del divieto della pubblicità dell’azzardo, è solo la punta di un’inquietudine molto più profonda.

C’è l’inquietudine (dolorosa, ancorché positiva e vera, poiché comune) del voler, finalmente, ottenere un risultato concreto nel contrasto all’azzardo. Come? Colpendo uno degli assi portanti di un sistema che, in questi anni, ha inquinato il dibattito (incatenando i media), avvelenato il clima sociale e introdotto forme di biomarketing sempre più invasive, funzionali a un’aggressione finanziaria di famiglie e risparmi sempre più diffusa.
Quando tra la realtà rappresentata da chi trae profitto e la realtà percepita da chi in quella realtà si trova immerso, pagandone direttamente il conto, il divario diventa un abisso … è inevitabile che si arrivi la resa dei conti. È quello che sta accadendo in queste ore.

Aggregati sistemici di interesse

Attorno alla pubblicità si muovono enormi interessi. Considerazione ovvia, si dirà. La pubblicità favorisce inedite aggregazioni (media, fondazioni, società sportive, addirittura istituzioni culturali…) creando occasioni di contatto e canali per stabilire legami che, oltre a mettere a rischio l’autonomia dei singoli, mettono in serio pericolo anche l’indipendenza dei soggetti collettivi che riteniamo alla base del benessere comune.

Su questo terreno gli interessi – cosa meno ovvia, a questo punto – sono trasversali e non riguardano solo chi fa business direttamente con l’azzardo legale. Riguardano un sistema d’interconnessioni e interdipendenze reciproche, tra case farmaceutiche, sport, gestione di sistemi di pagamento digitale, editoria, fondi di investimento, società concessionarie dello Stato italiano ma con sede anche fiscale estera e via discorrendo. Un enorme aggregato di conflitti d’interesse consolidatisi a tal punto che il conflitto non viene più nemmeno percepito come tale. Restano, allora, solo gli interessi

Tutto questo ha allargato il divario fra “Paese legale” e “Paese reale”. Finché il Paese reale ha fatto saltare un equilibrio, consolidato ma precario, che si reggeva su continue dichiarazioni di principio e zero passaggi all’atto.

Se si cambia il metro di giudizio, si sa, cambia anche il giudizio. Così se da un’arbitraria garanzia offerta al business (privato nei profitti, ma sempre capace di socializzare danni e perdite), si passa al metro costituzionale della tutela primaria di dignità e salute dei cittadini le cose assumono subito un altro aspetto. Il re è nudo, insomma. Ma qualcuno deve dirglielo.

Ecco il perché di tanta agitazione attorno, sopra e, soprattutto, sotto il divieto di pubblicizzare l’azzardo in ogni sua forma e su ogni mezzo. Divieto peraltro – come ha ricordato l’economista Leonardo Becchetti – senza oneri per le casse dello Stato.

Il problema, per le società che operano nel settore del gambling, risiede nella natura stessa o, meglio, nell’intimo legame fra pubblicità dell’azzardo e prodotti dell’azzardo. Dalla lezione di Robert Putnam, che ne scrisse nel suo celebre Bowling Alone, sappiamo che entrambi sono moltiplicatori di degrado del capitale sociale e relazionale.

Azzardo predatorio

Bernie Sanders, nell’ultima campagna elettorale Usa che lo ha visto sconfitto elettoralmente, ma capace di mettere con franchezza a nudo alcuni nodi del sistema finanziario occidentale, ha parlato di predatory gambling, azzardo predatorio. Se c’è un predatore c’è una preda. E se c’è una preda, c’è un’esca. Quest’esca è, strutturalmente, la pubblicità. Senza l’esca, il predatore faticherebbe molto nel far cadere in trappola le prede. Togliere l’esca a un predatore non elimina il problema, ma lo costringe a uscire allo scoperto, mostrandosi per quello che è, non come un “predatore compassionevole”.

Per chi in questa logica vede non solo un problema di ordine etico e sociale, ma anche un rischio sistemico, finanziario e di pace sociale per il Paese, si tratta di porre un argine.

La grande battaglia pro o contro la pubblicità del predatory gambling, settore che nel 2017 ha movimentato 102 miliardi di euro nel solo settore legale, oggi si svolge su un terreno primario: la nostra mente. La questione della pubblicità dell’azzardo è tutta qui: per le aziende si tratta di attrarre clienti, alterandone le cognizioni al fine di colonizzarne le emozioni offrendo loro – come raccontava un programmatore di NGR, gli algoritmi che sono il motore di questo sistema -– “esperienze a buon mercato”.

Detto banalmente: la pubblicità dell’azzardo non è sussidiaria al prodotto. È parte del prodotto stesso. E il prodotto… sono i giocatori. Che vanno sedotti e, letteralmente, “costruiti” come tali. La pubblicità dell’azzardo di massa non si limita, infatti, a orientare i consumi. Costruisce vere forme – non meri stili – di vita trasformando, a piccole dosi e a bassa intensità, i consumi in desideri. E i desideri, goccia dopo goccia, diventano bisogni. Addictions, appunto. Ma c’è tutto il lasso temporale, spesso molto lungo, fra la fase di innesco e l’esplosione in patologie conclamate che permette di estrarre tutto ciò che è possibile estrarre da un soggetto, prima di espellerlo dal sistema facendolo entrare nella ruota della “cura”.

Biomarketing dell’abitudine

Il terreno della mente si conquista al business attraverso una strada maestra: la costruzione di abitudini. L’abitudine è un comportamento automatico innescato da cose che incontriamo (in apparenza) casualmente sul nostro percorso e da comportamenti conseguenti a queste cose.

L’abitudine è una somma di comportamenti che mettiamo in moto senza prestar particolare attenzione e senza che questi comportamenti cose arrivino alla soglia della consapevolezza. La stratificazione di questi comportamenti produce quello che in gergo si chiama “ingegnerizzazione dell’abitudine”.

Elemento chiave per costruire e ingegnerizzare abitudini, in un settore come il gambling, è appunto la pubblicità. La pubblicità non è un elemento accidentale, ma è un condizione costitutiva del business dell’azzardo predatorio legale. La pubblicità consente al predatore di mimetizzarsi nell’ambiente della preda, operando in piena luce, indisturbato.

Costruire la dipendenza attraverso la pubblicità

Senza pubblicità, per l’aggregato sistemico che chiamiamo predatory gambling non c’è possibilità:

a) di agire sull’immaginario sociale;

b) convertire in valore qualcosa che nel senso comune è un disvalore;

c) garantire una “normalità” a ciò che non è normale, definendo “patologico” le forme da cui non è più possibile estrarre valore finanziario;

d) limitare l’autonomia di scelta del soggetto targettizzato, pur mantenendo un’apparenza di libertà nella scelta: è il famoso “smetto quando voglio”, solo che quando si tratta di smettere, premendo il freno, ci si accorge che il freno non c’è. O, meglio, anche il pedale del freno è un acceleratore.

Nel contesto del predatory gambling la pubblicità delimita i contorni di uno scenario (frame) dentro il quale l’abitudine di consumo viene dotata di un senso attraverso narrazioni persuasive e individualizzate, dove non è più l’evento (una partita, etc.) ma il giocatore ad essere al centro della mappa.

L’azzardo di massa (gambling) deve essere raccontato come intrattenimento (gaming) per funzionare senza intoppi a livello del senso comune, mantenendo così suoi livelli di business. E deve alimentare una retorica dell’autocontrollo per incrementarli: lo “smetto quando voglio” del giocatore, dal lato del business diventa il moralistico “gioca responsabilmente”. Mentre è proprio la perdita dell’autocontrollo ciò che i giocatori cercano e il biobusiness mette a valore.

Il termine inglese «hooked» letteralmente significa “uncinato”, “afferrato”. Attorno a questa parola l’esperto di neuromarketing Nir Eyal ha costruito un modello strategico chiamato “il gancio” che spiega esattamente quanto, semplificando, abbiamo detto finora.

La pubblicità permette inoltre di legittimare sul piano sociale ciò che già è stato – con le legalizzazioni avvenute a partire dagli anni Novanta – autorizzato sul piano formale-legislativo.

Nell’ambito dell’azzardo, specialmente online, la pubblicità di un prodotto e l’architettura di quel prodotto sono tutt’uno. Ecco il problema.

L’advertising è dunque ben più che presentazione o rappresentazione di un prodotto. L’advertising non è informazione, come vorrebbero far credere molti fra coloro che, in queste ore, si oppongono all’abolizione della pubblicità dell’azzardo che il Governo si appresta a varare. L’advertising è un tassello di una deformazione complessiva del piano di realtà operata dal predatory gambling.

La pubblicità dell’azzardo è, tecnicamente, un trigger: innesco potentissimo dell’abitudine che spinge verso prodotti-gabbia. In settori delicati dove la “fidelizzazione” del cliente sconfina spesso e sempre più con la costruzione di dipendenze, vale la formula coniata da chi questo problema l’ha studiato davvero e l’ha studiato da dentro, la ricercatrice del MIT Natasha Dow Schull: la dipendenza è by design, è già oggettivamente insita nel prodotto, non deriva dal suo uso soggettivo scriteriato o, peggio, dall’abuso. Un problema complesso, insomma. Ma la risposta è semplice e la conosciamo tutti. Tertium non datur.


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