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Cultura

A 40 anni da Basaglia. «Non era solo questione di muri»

5 Agosto Ago 2018 0900 05 agosto 2018
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Era a Trieste negli anni del grande cambiamento. Poi ha lavorato in Sud America e nell’Oms, facendo tesoro di quella straordinaria esperienza. Ma adesso Benedetto Saraceno ha scritto un libro per denunciare la “povertà della psichiatria”. Ecco il suo pensiero

Sono passati 40 anni dall’approvazione della legge Basaglia, e si può ben dire che questi 40 anni Benedetto Saraceno li abbia usati bene. Era partito da lì, dall’esperienza epocale del manicomio di Trieste, lavorando con lo stesso Basaglia e con il suo successore Franco Rotelli. Poi era partito con l’idea di replicare quell’esperienza nel mondo. «Avevo l’idea che quella di Trieste dovesse essere un’esperienza con un impatto globale», racconta. Prima a Milano, all’istituto Mario Negri dove da direttore dell’istituto di Epidemiologia ha messo a punto degli strumenti metodologici che permettessero agli psichiatri di valutare quello che stavano operando. Quindi il salto in Sud America, dove sotto la sua regia viene siglata nel 1990 la Dichiarazione di Caracas, un passaggio fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei pazienti psichiatrici in quel grande continente («È stato il primo grande evento di salute mentale pubblica con ricaduta “globale”»). Un successo che è valso a Saraceno la nomina, nel 1996, a responsabile del Programma sulla salute mentale dell’Oms. Benedetto Saraceno in occasione di questo quarantennale ha pubblicato un libro affascinante, in cui vive ancora intatta l’intelligenza e la passione che dettò quel passo epocale. Eppure il titolo del libro sembra una dichiarazione di sconfitta: “Sulla poverà della psichiatria”.


Benedetto Saraceno

Saraceno, perché questo titolo?
Innanzitutto una precisazione: io parlo di povertà della psichiatria, non degli psichiatri che nella grande maggioranza dei casi sono bravissime persone che si dibattono avendo tra le mani strumenti spuntati e una disciplina che è piena di aporie e irrazionalità. Sono coraggiosi marinai che cercano di dare una mano a chi sta male. Se riescono nell’intento, alla fine non sanno bene come questo è accaduto. La povertà a cui faccio riferimento è quella della disciplina, che è fragile nei suoi costrutti epistemologici.

Provi a fare un esempio...
Oggi uno psichiatra deve lavorare sui sintomi senza la possibilità di organizzarli in una categoria diagnostica che guidi poi al trattamento. Fare una diagnosi significa perseguire due obiettivi: sapere che cosa fare e sapere come andrà finire. Cioè fare terapia e fare prognosi. Invece in psichiatria accade che la dia- gnosi svolge una funzione di etichettamento del paziente, obbedendo ad esigenze che sono soprattutto amministrative. La sofferenza della persona viene trasformata in un codice verbale, inaccessibile per il paziente. Come ho scritto, la diagnosi in psichiatria invece di essere un ponte tra medico e malato è una lama che rende impossibile questo incontro.

La medicalizzazione è una conseguenza di questo?
L’utilizzo dei farmaci domina sempre più la scena. E sono per di più farmaci sempre più spuntati rispetto alla domanda. Ma questo accade perché una delle conseguenze della povertà di cui parlo è quella di aver lasciato libero campo all’industria di imporre il modello biomedico come unico modello. Negli ultimi 20 anni il ricorso agli psicofarmaci è aumentato del 20%, mentre le spese di marketing per quei prodotti sono schizzate a + 400%. Nei Paesi ricchi la media della spesa per la salute mentale sulle spese complessive sulla salute è del 6,8%. Ebbe- ne secondo i dati Ocse l’85% di queste risorse finisce in spazi letto. Solo il 15% in interventi e servizi sul territorio. Questo è un fattore di povertà, perchè non si vuole considerare che in psichiatria i fattori di contesto contano di più di quelli clinici. Invece la psichiatria ha a che fare con problemi che vanno oltre il fattore biologico, sono i fattori che c’entrano con il conte- sto, con le relazioni, con la vulnerabilità sociale della persona.


In apertura Franco Basaglia con un gruppo di suoi pazienti prima di salire sull’aereo per un volo nel cielo di Trieste. Qui il volantino che annunciava l’iniziativa

A 40 anni di distanza è una sconfitta per la rivoluzione basagliana?

No. Quello è un punto di non ritorno e ha innescato processi con risultati straordinari come dimostra quanto è accaduto in un grande Paese come il Brasile con la «luta antimanicomial». Il problema è piuttosto che su Basaglia si perpetuano degli equivoci. La sua esperienza non c’entra con l’antipsichiatria. Per lui la sfida era trovare un posto allo psicotico, non negarne lo status. E non è stato neanche uno che abbia ceduto alla fascinazione letteraria della follia. Il suo lavoro è andato nella direzione di una deistituzionalizzazione, che non riguardava solo i muri dei manicomi ma il costrutto della psichiatria stessa e che metteva al centro la questione dei diritti civili del malato. Rispetto ai modelli scientifici universalizzanti, Basaglia ha gettato i semi di una possibile scienza della singolarità.

Significa ridare voce agli utenti?
Sì, anche se è un’evoluzione che ha preso forme diverse e spesso contraddittorie, specie quando il protagonismo è frutto di un atteggiamento paternalistico di una psichiatria buonista. Protagonismo invece comporta riconoscere al paziente di entrare ad esempio nel merito dell’organizzazione del servizio e di esprimere il suo punto di vista. Riconoscere loro anche un potere contrattuale.

Tornando a Basaglia, cosa è stato frainteso della sua lezione?
È stata dimenticata quella che per lui era l’inscindibilità del binomio pensiero/pratica. Come ripeto sempre, Basaglia sa, ma non gli basta sapere. Per lui è fondamentale riconoscere l’altro e poi trasformare questa comprensione acquisita in pratica di trasformazione. Se non si tiene conto di questo il pensiero basagliano si riduce a un misto di indignazione filantropica per le condizioni inumane dei ricoverati e di un conseguente ragionevole spirito organizzativo, grazie al quale i letti vengono sostituiti dagli ambulatori. Ma questa è riduzione a un pensiero puramente amministrativo, anche se buono, di quella che è una pratica di liberazione. Per questo nel libro mi sono augurato che un giorno si possa ricostruire una storia non solo europea dei percorsi di liberazione dei malati psichiatrici.

Dovesse descrivere schematicamente questi percorsi come farebbe?
Innanzitutto c’è una componente di sorpresa e unicità da cui non si può mai prescindere. Detto questo, in genere non sono esperienze nate da una semplice volontà di razionalizzazione dei servizi, né sono piccole opere di ingegneria istituzionale. Hanno tutte a monte percorsi fatti di indignazione morale per le condizioni di vita dei malati ma anche fatti di scoperte delle straordinarie possibilità terapeutiche e riabilitative nascoste nell’informalità quotidiana delle comunità circostanti. Un’informalità intessuta di invenzioni e di alleanze inconsuete e coraggiose.

A 40 anni dalla Basaglia qual è la sua valutazione?
È una legge unica al mondo, che si trascina due fragilità. La prima è la medicina di base poco capace di essere risolutiva nella media psichiatria. La seconda è la presenza degli utenti che è più retorica che reale. Oggi ci sono esperienze inglesi dove i pazienti hanno addirittura un posto in cda.

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