ERDOGAN
Cultura

Asli Erdoğan: «Libertà è una parola che non tace mai»

21 Settembre Set 2018 1730 21 settembre 2018
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La scrittrice turca, che dà voce alle vittime del regime ed è diventata un simbolo della resistenza femminile, è stata incarcerata per 136 giorni nel 2016 e ora vive in esilio a Francoforte. L'abbiamo incontrata a Bellinzona a Babel Festival di letteratura e traduzione, dedicato quest’anno al Brasile. Ha presentato “The City in Crimson Cloak” (2011), il romanzo che ne ha decretato il successo in Turchia e all’estero

Scrittrice, giornalista, attivista per i diritti umani, Asli Erdoğan (Istanbul, 1967) è tra i più importanti autori della letteratura turca contemporanea. Prima di dedicarsi interamente alla scrittura, si è laureata in ingegneria e in fisica a Istanbul, e ha lavorato per due anni al Cern di Ginevra. Ha pubblicato 9 libri che sono stati tradotti in 20 lingue e hanno vinto numerosi premi in Turchia e in Europa. «Uso uno stile narrativo basato sulle immagini e sulle metafore, molto intenso e penetrante, vicino alla poesia e alla musica», spiega.

Il 16 agosto 2016, dopo il fallito colpo di stato militare, Asli Erdoğan è stata arrestata e incarcerata a Istanbul con l’accusa di “propaganda terroristica”, per avere collaborato come consulente editoriale per il quotidiano filocurdo Özgür Gündem, e avere rivendicato dalle sue colonne la libertà di opinione e di denuncia delle atrocità del governo. «È oltraggioso e scandaloso essere accusati di terrorismo, specialmente se si considera che sono una persona non violenta e, come scrittrice di letteratura, ho trattato le storie delle vittime e ho cercato di sviluppare una teoria dell’anti-violenza, analizzando che cos’è la violenza in un sistema basato sulla violenza e sul potere».
In seguito alla sua incarcerazione innumerevoli petizioni e manifestazioni ne hanno reclamato la liberazione. Tra i suoi sostenitori il premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk.

Neanche in prigione sono stata ridotta al silenzio, ho continuato a scrivere. Ho scritto delle piccole note. È una parte di me che non conoscevo, non pensavo di essere capace di farlo. È il segno che sono una vera scrittrice: la mia fiducia nelle parole è incrollabile

Asli Erdoğan

Asli Erdoğan è stata scarcerata il 29 dicembre 2016, dopo 136 giorni di prigionia. «Il mio primo giorno in isolamento è stato terribile: ho scoperto che questa è la peggiore tortura mai inventata. Ma anche in prigione, anche se c’era un processo che pendeva sopra la mia testa, che voleva dire che avrei potuto non uscirne viva, non sono stata ridotta al silenzio, ho continuato a scrivere. Ho scritto delle piccole note. E’ una parte di me che non conoscevo, non pensavo di essere capace di farlo. Scrivevo senza riflettere, in modo automatico. È il segno che sono una vera scrittrice: la mia fiducia nelle parole è incrollabile».

Ora Asli Erdoğan vive in esilio a Francoforte, e scrive: «Difendere la libertà e la pace non è un reato né un atto di eroismo, ma il nostro dovere. E oltre a difenderle, dobbiamo restituire a queste parole i significati e la sacralità che hanno perso».
Sono parole tratte da “Neppure il silenzio è più tuo” (2017), che raccoglie alcuni articoli originariamente pubblicati su Özgür Gündem. Il libro parla dell’attualità e della repressione in Turchia attraverso il linguaggio della letteratura. Insieme a “Il mandarino meraviglioso” è l’unico romanzo dell’autrice pubblicato in Italia.

Difendere la libertà e la pace non è un reato né un atto di eroismo, ma il nostro dovere. E oltre a difenderle, dobbiamo restituire a queste parole i significati e la sacralità che hanno perso

Asli Erdoğan

Asli Erdoğan è stata ospite a Bellinzona di Babel Festival di letteratura e traduzione, quest’anno alla sua 13a edizione, dedicata al Brasile. Il festival è andato a scoprire voci ancora poco conosciute o ascoltate anche in Brasile, ma con grande urgenza ed energia espressiva.

The City in Crimson Cloak” (“La città dalla cappa cremisi”), è il terzo romanzo della Erdoğan, ed è ambientato a Rio de Janeiro. L'autrice l’ha presentato a Babel, parlando della sua relazione con Rio de Janeiro, dove ha abitato due anni, e della sua esperienza dopo il Brasile. Questo romanzo ha decretato il successo della scrittrice sia in Turchia, sia all’estero. Grazie a “The City in Crimson Cloak”, Asli Erdoğan è stata inserita dal magazine francese Lire nella classifica dei “50 Scrittori del Futuro”.

Babel 2018. Al centro: Asli Erdoğan

«Ho scritto questo libro 20 anni fa, quando avevo 30 anni, e stavo quasi morendo. Dopo il mio ritorno da Rio ho capito quanto ero ammalata, deperivo, e nessun medico ne comprendeva la ragione. Più avanti mi è stato diagnosticato un tumore, ma non sapevo quale fosse la ragione profonda del mio star male. E dunque il mio confronto con la morte e con il fatto della nostra mortalità era molto reale», spiega Asli Erdoğan.

«Questo libro è la mia interpretazione del mito di Orfeo: l’ho ambientato a Rio de Janeiro perchè il primo film che ho visto su Rio era Orfeo Negro. Quando sono arrivata a Rio avevo 26 anni, e fin dal primo momento ho capito che questo era il mito della città. Orfeo è quasi un mio concittadino perchè provengo da parte di madre da Salonicco, ma per me Orfeo era di Rio de Janeiro. Ho scritto questo libro dopo che sono tornata da Rio, dopo che ne sono sopravvissuta. A Rio de Janeiro sono probabilmente anche morta. Questa è la città che mi ha insegnato la morte, e a morire. Avrei potuto impararla anche in Turchia, ma per destino o coincidenza l’ho imparata a Rio.

In turco tutti i nomi di persona hanno un significato: il mio nome, Asli, significa: “il reale”, o “l’archetipico”, quello di Özgür, la protagonista, significa “libero” o “libera”. Quando ho trovato il nome del mio personaggio, ero alla fine della stesura del libro, e mi sono resa conto che un tema di cui stavo scrivendo in questo libro era la libertà (Özgür) , libertà contro il destino, che fa sorgere domande come: Ti puoi liberare dal tuo destino scrivendone? Scrivere è una catarsi? Assumi forse il pieno controllo del tuo destino se scrivi della tua morte?

Ho voluto scrivere un romanzo alla vecchia maniera, che affrontasse tutti i grossi temi, come la realtà, la libertà, il destino. È un libro sullo scrivere che pone domande come: Perché scriviamo? Perché raccontiamo storie? Perché raccontiamo le nostre storie? Che rapporto c’è tra scrittura e mortalità, e il fatto di essere mortali? Scrivere è o meno un atto di altruismo estremo?

Rio è la città che mi ha insegnato la morte, e a morire. Avrei potuto impararla anche in Turchia, ma per destino o coincidenza l’ho imparata a Rio

Asli Erdoğan

La protagonista è una donna che vorrebbe liberarsi dal rapporto di odio e di passione che la lega alla città di Rio. Özgür e Rio si fronteggiano come due specchi che si riflettono a vicenda ma sono anche in un gioco mortale tra di loro. Secondo me sono due partner ideali ed è del tutto evidente che non si poteva ambientare questa storia che in una città come Rio.

Dopo avere ultimato il mio romanzo sono stata per mesi in uno stato prossimo alla follia. Poi una testata di sinistra, che si chiamava Radikal (e che in seguito è stata chiusa), intellettuale e mainstream, mi ha offerto di scrivere una rubrica. E io che ero stata vicino alla morte, scrivendo queste mie rubriche sono tornata alla vita: è come se mi avessero dato una chance di vita, una grande opportunità per una scrittrice, e anche la possibilità di guadagnare dei soldi.

Dopo 3 anni mi hanno licenziato. In queste mie rubriche scrivevo spesso di vittime di ogni genere: donne, carcerati, curdi, armeni, militari… chiunque fosse una vittima. Scrivevo la loro storia con il linguaggio della letteratura. E ho scritto di molte persone che erano già morte all’epoca: «la mia gente, la mia famiglia», così ho sempre chiamato i prigionieri in sciopero della fame, le ragazze violentate... Forse la migliore di quelle rubriche parlava proprio dello stupro.

Nelle mie rubriche scrivevo spesso di vittime di ogni genere: donne, carcerati, curdi, armeni, militari... Scrivevo la loro storia con il linguaggio della letteratura

Asli Erdoğan

Tutti i responsabili delle rubriche un giorno hanno ricevuto da un carcere una lettera, che parlava di una donna curda di un villaggio, sui 50, malata terminale di tumore ovarico. C'è un articolo nell’ordinamento turco che stabilisce che il carcerato con una malattia in stadio terminale venga scarcerato per andare a morire a casa.

Nel caso di questa povera curda questo articolo di legge non era stato applicato, finché io e altri due giornalisti, responsabili di tre rubriche diverse, abbiamo scritto sul suo caso. Tra noi c’era anche il giornalista Ahmet Altan, che è in carcere da due anni ed è condannato all’ergastolo. Visto che noi ci siamo impegnati a scrivere sul suo caso e all’epoca Ahmet Altan era un giornalista molto potente, la donna curda è stata scarcerata.

Ricordo molto bene il senso di vittoria che ho provato quella volta, ed è una sensazione che provo di rado. Otto mesi più tardi ho letto su un piccolo giornale che questa donna era morta, e mi è tornato alla mente il sentimento di vittoria che avevo provato. Mi sono detta: «Asli, hai scritto un libro sul mito di Orfeo, ma il mito di Orfeo non l’hai capito».

Non è possibile aprire la porta della terra dei morti o, se ti riesce di aprirla, è solo per pochi attimi. Questo è il solo infinito che abbiamo, noi che lavoriamo con le parole, questi pochi istanti in cui riusciamo a schiudere quella porta. Questa è una lezione che ho imparato la prima volta a Rio, poi in Turchia, in prigione, più e più volte, ma per continuare a scrivere questa lezione me la devo dimenticare».

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