Mentre il Decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini punta alla sua abolizione, i numeri del sistema Sprar svelano un paradosso: è unanimemente considerato un modello efficace, ma in Italia è stato poco utilizzato. Perché? Con quali conseguenze, economiche e morali? Lo rivela un paper Ispi-Cesvi
In termini assoluti, si tratta di un modello indubbiamente virtuoso. Anche comparandolo al sistema "privatistico" e emergenziale dei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria), lo Sprar ha dato buona prova di sé in questi anni. Eppure, i numeri non depongono a suo favore.
Troppo virtuoso, forse. E, di conseguenza, troppo tracciabili i flussi (di denaro) legati al modello? Che cosa ha spinto il nostro Paese a privilegiare soluzioni emergenziali, quindi pseudo-soluzioni, a tutto svantaggio dello Sprar? Difficile rispondere senza cadere in qualche trappola retorica. Ciò non di meno, il fenomeno è da capire. In questo aiuta un working paper di Ispi-Cesvi (lo trovate in fondo all'articolo, in formato pdf) realizzato da Matteo Villa (ISPI) ,Valeria Emmi (Cesvi) e Elena Corradi (ISPI).
Persone divise per tipologia di strutture di accoglienza
2014-2017
Cas e Sprar: l'eccezione è la regola
Istituito 16 anni fa dalla legge n. 189/2002 e riformato con il DL 142/2015, art.14, lo Sprar ha come scopo offrire «progetti di accoglienza integrata». Le strutture Sprar sono gestite dal terzo settore in collaborazione con gli enti locali, che accedono ai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (Fnpsa) nel quale confluiscono anche i finanziamenti del Fondo asilo migrazione e integrazione europeo (Fami).
A fronte dell’emergenza arrivi degli ultimi anni e dell’insufficiente numero di posti disponibili, all’articolo 11 il DL 142/2015 prevede l’accoglienza in strutture temporanee apposite, i Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Queste strutture sono amministrate a livello nazionale, individuate dalla prefettura sentito l’ente locale. I Cas dovrebbero in teoria essere pochi e temporanei. L’obiettivo più volte dichiarato infatti è quello di rendere lo Sprar l’unico sistema per gestire la seconda accoglienza, rimpiazzando i posti dei Cas.
L'emergenza quotidiana
La ratio, spiegano i riceractori di Ispi-Cesvi, è quella di «fornire servizi il più possibile tagliati su misura della persona e vicini al territorio grazie al coinvolgimento dei comuni e alla loro partecipazione volontaria, così da massimizzare le opportunità di integrazione e allontanarsi da procedure emergenziali». Peccato che le cose non siano andate così. Nel corso degli anni i posti a disposizione del sistema Sprar sono effettivamente aumentati, passando da meno di 4.000 nel 2012 a circa 25.000 nel 2017.
Il sistema di gestione dei migranti in Italia
Tuttavia nel 2017 l’86% dei richiedenti asilo e rifugiati accolti dal sistema di emergenza e di prima accoglienza non si trovava in strutture Sprar. Inoltre, tra il 2014 e il 2017, spiega il rapporto, il gap tra migranti accolti nei centri temporanei o di emergenza e quelli accolti nella rete Sprar ha continuato a crescere. Se nel 2014 circa 1 migrante su 3 era ospitato nelle strutture Sprar, adesso la proporzione è di 1 su 7.
Con quali conseguenze? Tante. Una su tutte (e, forse, la più elementare) è data dai costi, che lievitano nel caso dei Cas. I costi per l'accoglienza sono così cresciuti da poco più di 300 milioni di euro nel 2011 a quasi 3 miliardi di euro nel 2017.
Ovviamente le cose stanno cambiando - e molto rapidamente, anche in seguito alla diminuzione degli sbarchi. Invevitabilmente gli scenari ne risentono. Resta una domanda aperta, tanto sul fronte istituzionale quanto su quello etico: dato cheil nostro Paese disponeva di un modello virtuoso (Sprar), perché ha preferito optare per situazioni provvisorie, costose e ben più porose rispetto a problemi di legalità e distrazione di risorse pubbliche?