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Chiamare “bene” il male e vivere felici: il disimpegno morale è la cifra del nostro tempo?

Dirigenti d’azienda, politici, quadri intermedi, impresari del gioco d’azzardo: come è possibile che chi genera sofferenza nel prossimo continui a dormire sonni tranquilli? Ce lo spiega lo psicologo Albert Bandura: il disimpegno morale ha le sue strategie. E in un mondo dove l'unica logica è il profitto, sono strategie vincenti

di Marco Dotti

Dirigenti d’azienda, politici, decisori, impresari del gioco d’azzardo: come è possibile che chi genera sofferenza nel prossimo continui a dormire sonni tranquilli?

Disimpegno morale: la categoria del nostro tempo

Converrebbe davvero a tutti dare una lettura all’ultimo lavoro di Albert Bandura. Non ci sono slogan, non c’è un 2punto o un 4punto – che comunque preludono alla loro verità: lo zero. Ci sono 612 pagine che ruotando attorno a un perno antikantiano: il cielo stellato sarà pure sopra di me, ma nessuna legge morale è in me per il solo fatto che io appartengo alla specie umana. Non che l'uomo sia in sé malvagio, solo che è possibile renderlo e per lui è possibile rendersi tale. La coscienza di fare il male scompare. Non scompare, ovviamente, il male. Ma lo chiamiamo "bene".

E così, davanti a un’umanità che vacilla sui suoi cardini, Bandura affronta di petto, da psicologo sperimentale, quello che è il problema chiave delle nostre strutture organizzative: il loro collasso morale e la loro tendenza al male.

Nel suo libro, Disimpegno morale. Come facciamo il male continuando a vivere bene (trad. di Riccardo Mazzeo, Erickson, Trento 2018, pagine 612, euro 28) ,lo psicologo canadese, noto per i suoi studi sull’autoefficacia e l’human agency, ovvero la capacità di agire in maniera trasformativa del contesto, racconta come i nostri sistemi economici e sociali siano oramai improntati al moral disengagement.

Il «disimpegno morale» è un mezzo che consente all’individuo di «disinnescare» temporaneamente la sua coscienza personale mettendo in atto comportamenti inumani, o semplicemente lesivi, senza sentirsi in colpa.

Il disimpegno morale, spiega Bandura, è «un problema sociale sempre più pressante in tutte le traiettorie della vita» e in tutti i suoi aspetti.

Bandura individua inoltre alcuni punti attraverso i quali, complice l'autopersuasione e la disinibizione, oltre all'uso eufemistico del linguaggio (parlare di aggressioni e non di violenze, ad esempio, abbassa la soglia morale e permette una più rapida accettazione di fatti di violenza) e alla progressiva disumanizzazione della vittima, il disimpegno morale si impone nelle nostre scelte di vita, diventando la chiave di volta della nostra vita stessa.

Giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, spostamento di responsabilità, diffusione di responsabilità, distorsione delle conseguenze o non-considerazione delle stesse, deumanizzazione della vittima, attribuzione di colpa sono questi i meccanismi del disimpegno morale che quotidianamente vediamo e mettiamo all'opera.

Abbracciare il mondo, detestare gli uomini

La nostra coscienza va da una parte ( il mondo, l'ambiente, il genere umano nelle loro forme astratte) e la nostra azione da tutt'altra parte. Finché il confronto col concreto viene eluso, il sistema regge: il politically correct non funziona forse così? «Abbiamo braccia tanto grandi per abbracciare il mondo, ma non abbastanza grandi per abbracciare un amico», cantava Giorgio Gaber.

Con quali conseguenze? Prendiamo un esempio: amare l'astratto, odiare il concreto. In Anna Édes, un classico della letteratura europea scritto nel 1926 dall'ungherese Dezső Kosztolány (se ne può leggere la traduzione di Andrea Rényi e Mónika Szilágyi per Anfora edizioni, 2018) leggiamo un dialogo esemplare, che già coglie il problema:

«Lei ama il genere umano, vero?
– Io? Non lo amo.
– Come?
– Non lo amo perché non l’ho mai visto, non lo conosco. Il genere umano è un concetto vuoto. E faccia attenzione, consigliere, al fatto che tutti i mascalzoni dicono di amare il genere umano. Il genere umano è l’ideale dell’egoista, del subdolo, di quello che non dà nemmeno un pezzo di pane al proprio fratello. Impiccano e uccidono esseri umani, ma amano il genere umano. Profanano il proprio altare familiare, cacciano di casa le loro mogli, non si occupano dei loro padri, delle loro madri, dei loro figli ma amano il genere umano. Non esiste un altro concetto più comodo. Infine, non ti obbliga a niente. Mai nessuno verrà incontro a me presentandosi, “io sono il genere umano”. Il genere umano non chiede da mangiare, non vuole vestiti, si tiene a debita distanza, sullo sfondo, con la gloria sulla fronte augusta. Esistono solo Pietro e Paolo. Solo uomini. Il genere umano non esiste».

L'impero del bene – ben descritto da Philip Muray – inizia sempre dal disprezzo per "Pietro e Paolo" e si conclude nello spettacolo dei loro casi umani, esposti in televisione alla litania dei buoni sentimenti o, sempre per dirla col polemista francese, nel management degli affetti speciali.

«Lei ama il genere umano, vero?
– Io? Non lo amo.
– Come?
– Non lo amo perché non l’ho mai visto, non lo conosco. Il genere umano è un concetto vuoto. E faccia attenzione, consigliere, al fatto che tutti i mascalzoni dicono di amare il genere umano. Il genere umano è l’ideale dell’egoista, del subdolo, di quello che non dà nemmeno un pezzo di pane al proprio fratello. Impiccano e uccidono esseri umani, ma amano il genere umano. Profanano il proprio altare familiare, cacciano di casa le loro mogli, non si occupano dei loro padri, delle loro madri, dei loro figli ma amano il genere umano. Non esiste un altro concetto più comodo. Infine, non ti obbliga a niente. Mai nessuno verrà incontro a me presentandosi, “io sono il genere umano”. Il genere umano non chiede da mangiare, non vuole vestiti, si tiene a debita distanza, sullo sfondo, con la gloria sulla fronte augusta. Esistono solo Pietro e Paolo. Solo uomini. Il genere umano non esiste».

Dezső Kosztolányi

L'apologo del mandarino cinese

Ma a ben vedere, il meccanismo è stato spiegato meglio in Balzac. In Père Goriot, Honoré de Balzac fa formulare a uno dei suoi personaggi il celebre “Apologo del mandarino cinese”. Cosa faresti, chiede Rastignac all'amico Bianchon, se ti venisse proposto in cambio di un'ingente guadagno, forse la maggiore delle ricchezze possibili di provocare con la sola forza del pensiero la morte di un mandarino cinese? Potresti ucciderlo, afferma Rastignac, senza che tu ne sia responsabile se non di fronte alla tua coscienza, poiché nessuno lo vedrà.

«Quello che Rastignac pone come sfida morale – provocherai la morte di un altro individuo senza averne la diretta e chiara responsabilità se non nel tuo animo – è progressivamente diventato il legame modello della cosiddetta globalizzazione», spiega il filosofo Andrea Tagliapietra.

In Père Goriot, Honoré de Balzac fa formulare a uno dei suoi personaggi il celebre “Apologo del mandarino cinese”. Cosa faresti, chiede Rastignac all'amico Bianchon, se ti venisse proposto in cambio di un'ingente guadagno, forse la maggiore delle ricchezze possibili di provocare con la sola forza del pensiero la morte di un mandarino cinese? Potresti ucciderlo, afferma Rastignac, senza che tu ne sia responsabile se non di fronte alla tua coscienza, poiché nessuno lo vedrà

Se la testa non vede i propri piedi, non sa nemmeno che cosa sta calpestando. Hai voglia, allora, di riempiere le pagine del sito aziendale con i classici buoni propositi, firmare carte etiche e petizioni contro il gender gap e via dicendo.

Le nostre decisioni, lo si voglia o no, impattano sui territori esistenziali dell’altro. Ma questi territori e il grido delle vite concrete che li abitano non arrivano alle orecchie e al cuore dei decisori. Lo spettacolo si concede "casi umani", storytelling di nessuna storia. E di nessuna vita. Il risultato è che il risultato non cambia.

Quelodi Bandura è un libro fondamentale per chiunque, nel sociale, vorrebbe invertire la rotta. Non basterà, ma servirà forse per incrinare la presunzione di chi crede che il bene possa imporsi da sé,senza sforzo, senza discernimento, senza disciplina.

Ma senza sforzo che cosa resta? Il disimpegno. Lo zero morale, appunto.


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