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Cooperazione & Relazioni internazionali

Balcani: quei migranti che l’Europa finge di non vedere

Si è creato un "imbuto" ai confini tra Bosnia e Croazia, con migliaia di migranti costretti a stazionare in boschi e alloggi di fortuna, mentre sta per arrivare il grande freddo. Le Caritas sono pronte a dare il proprio aiuto, lanciano un progetto concreto di sostegno. Ecco che cosa abbiamo visto a Bihac, in Bosnia

di Marco Dotti

C'è ancora un'Europa che possa chiamarsi tale, nelle forme e nello spirito? «Colpisce che ai confini dell'Europa, in Bosnia, arrivino così tante persone in difficoltà. Migranti, rifugiati, come chiamarli? La sensazione, in questa terra, è che qualcuno le cose le muova. Sapere chi è difficile, ma le conseguenze sono sotto gli occhi di chiunque le voglia vedere».

Don Dario Crotti è responsabile della Caritas di Pavia. Con un piccolo gruppo di amici, insegnanti, volontari si è recato in Bosnia, sul confine con la Croazia. Una situazione al limite.

Vista da qui, l'Europa «appare senza un disegno, senza un'idea forte di condivisione di valori e di sguardi per quella che è una situazione che, con un minimo di buona volontà, potrebbe essere gestita».

«Siamo venuti in Bosnia – ci spiega don Dario – per capire cosa stava succedendo. I Balcani, dagli anni Novanta, sono stati per le Caritas e le associazioni l'occasione di coltivare nel tempo gemellaggi di solidarietà e azione. Si è creata una rete.Nel corso degli anni, il nostro occhio è diventato particolarmente attento e i collaboratori che stabilmente lavorano in Bosnia – la Caritas di Mantova, in particolare, dopo la guerra ha avviato un'azienda agricola nella diocesi di Banj Luka -, con IPSIA, l'ONG delle Acli, e con Croce Rossa di quella zona, hanno capito che uno dei punti importanti della rotta dei migranti è Bihac, una cittadina di circa cinquantamila abitanti al confine tra la Bosnia e la Croazia».

Che cosa è successo a Bihac? «Durante l'estate sono arrivate migliaia di persone: Afghanistan, Siria, Iran… Negli ultimi tre mesi, da Bihac, sono passate almeno 15mila persone. Ora stazionano in una specie di studentato costruito al tempo della guerra: non ha finestre, né porte. Ha solo lo sceletro di cemento armato. Parliamo di circa 2mila persone attualmente in città».

Ora sta arrivando l'inverno. «Proprio per questo stiamo elaborando un progetto per cercare di far fronte al freddo che verrà. Ogni giorno Croce Rossa distribuisce centinaia di colazioni. La gente si mette in coda, aspetta anche due ore per mangiare qualcosa di caldo. Appena finisce la coda della colazione, inizia quella del pranzo e così via».

Molti migranti, non trovando alloggio nello studentato si rifuguano nel boschetto accanto, con tende improvvisate. «Siamo arrivati venerdì scorso e abbiamo passato molte ore all'interno dello studentato: ci sono molti giovani, bambini molto piccoli. Sono lì e raccontano di voler stare al "gioco". Usano proprio questa parola: game. Vogliono cercare di entrare anche loro in Europa, passando il confine con la Croazia, costi quel che costi. Ma quando provano a passare il confine – si servono di un'app per individuare i punti di passaggio – la polizia croata li prende a manganellate e distrugge loro i cellulari».

Don Dario si è recato in Bosnia come Caritas di Pavia. Per capire e per agire.

«La Caritas della Lombardia ha un gruppo regionale per l'educazione alla mondialità. Ci troviamo quattro volte l'anno. A ottobre abbiamo fatto il primo incontro e abbiamo avuto aggiornamenti sulla situazione. Per questo siamo andati, in vista di un progetto di raccolta di beni di prima necessità e di fondi per dare aiuto e poter sostenere delle azioni che contrastino questa situazione drammatica».

Ne parleremo presto su Vita, seguendo il progetto.

«Se dovessi dire che cosa mi ha colpito di questo viaggio, direi i piedi dei ragazzi. Scalzi, feriti, provati. Sono piedi di giovani donne e giovani uomini che si sono messi in cammino verso una speranza, per fuggire a guerre o a catastrofi climatiche».

«Mi ha colpito molto», prosedue don Dario,«un gesto carico di umanità. Il gesto con cui questi ragazzi si toglievano le scarpe, le pulivano, cercavano di rammendarle. Per loro quelle scarpe sono la vita, sono la forza di continuare a sperare. I loro piedi dicevano tutta la fatica, tutti i sogni, tutto il dolore. Quelle scarpe dicevano la loro ostinata speranza».


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