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Il futuro è la Convenzione Onu, ma dopo dieci anni è ancora sconosciuta

A Roma un convegno chiude le celebrazioni dei 60 anni di Anffas. Roberto Speziale: «Avremmo potuto raccontare quel che abbiamo fatto, abbiamo voluto invece concentrarci sulle prospettive, sul ripensare i servizi e l’approccio alla disabilità… immaginare un futuro in cui le persone con disabilità si possano definitivamente emancipare dall’essere considerate persone che non possono fare cose a causa delle loro limitazioni ed essere invece viste come cittadini»

di Sara De Carli

Dal 28 al 30 novembre a Roma si esploreranno “le nuove frontiere delle disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo”. L’occasione è l’evento internazionale organizzato da Anffas come momento conclusivo delle celebrazioni per i suoi 60 anni, in prossimità anche della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità proclamata dall’ONU e che si celebra il 3 dicembre. Roberto Speziale è il Presidente dell’Associazione.

Cominciamo dal titolo che avete scelto: “Anffas 60 anni di futuro. Le nuove frontiere delle disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo”. Quali sono queste frontiere?
Sono legate alle nuove conoscenze che oggi si hanno sulle disabilità intellettive e sui disturbi del neurosviluppo. Avremmo potuto celebrare il nostro sessantesimo raccontato quel che abbiamo fatto, era un rischio forte: abbiamo voluto invece traguardare, concentrarci sulle prospettive, sul ripensare il modello dei servizi e l’approccio alla disabilità… immaginare un futuro in cui le persone con disabilità si possano definitivamente emancipare dall’essere considerate persone che non possono fare cose a causa delle loro limitazioni ed essere invece viste come cittadini che possono partecipare attivamente al proprio contesto di vita, lavorare… chiaramente con i giusti supporti. Questo significa intervenire in modo precoce, creare un percorso scolastico che non preveda solo la presenza a scuola del ragazzo con disabilità ma in cui la scuola sia davvero il supporto per l’acquisizione di competenze, di preparazione al lavoro, di socializzazione. E anche ripensare le attività abilitative e riabilitative, perché non siano più fini a se stesse ma lette in termini di efficacia.

A marzo 2019 saranno 10 anni dalla ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, quest’anno sono stati dieci anni dalla sua entrata in vigore a livello mondiale. L’impressione è che Anffas abbia fortemente cambiato fisionomia con la Convenzione, con una convinzione che non mi sembra di vedere così diffusa. Perché per voi è tanto importante?
Anffas ha fatto proprio senza se e senza ma il paradigma della Convenzione Onu, probabilmente perché li aveva già maturati. Ricordo che quando vent’anni fa all’Onu si iniziò a immagianare la Convenzione, per l’Italia c’era Maria Rita Saulle, una giurista che era mamma Anffas. È un percorso in cui ci siamo stati fin dall’inizio. Nel momento in cui la Convenzione è stata adottata non potevamo non tenerne conto, perché parla di diritti, capovolge il paradigma, si sposa pienamente con idea di sempre di Anfass. In occasione del 60esimo abbiamo fatto una ricognizione storica dei nostri slogan e li abbiamo trovati molto avanzati, di un’attualità incredibile ancora oggi. Paradossalmente però essere troppo avanzati non paga: rischiamo di parlare un linguaggio sconosciuto ai più. La verità è che la Convenzione Onu in Italia è largamente inattuata perché in gran parte sconosciuta. Quando hai un approccio tutto basato sui diritti e la qualità della vita, spesso ti guardano e dicono: “ma no, abbiamo bisogno di salute, di centri…”. Quando noi parliamo del diritto di autodeterminarsi, ci chiedono “ma come si fa?” e quando lo facciamo vedere strabuzzano gli occhi. La fatica che io vedo è proprio nel far comprendere che la Convenzione Onu non è un libro dei sogni ma qualcosa che se tradotta in concreto dà dignità, diritti, capovolge i paradigmi. Tra l’altro in Italia è legge, non si può far finta di niente. Anche se il primo a dimenticarselo è lo Stato.

In che senso?
Ad esempio nel passaggio dal modello medico al modello biopsicosociale, secondo cui la disabilità sta nella relazione con l’ambiente. Questo è il modello della Convenzione Onu, mentre il sistema italiano è ancorato al modello sanitario o peggio a quello pietistico/assistenziale. Si fa una fatica enorme a cambiare, lo vediamo nella legge 112 sul dopo di noi: la legge è basata tutta sulla Convezione Onu, il modello è tutto basato sulla sanità, quindi si fa fatica.

Lei aprirà i lavori insieme a Serena Amato, autorappresentante dell’Anffas di Ragusa e VicePortavoce della Piattaforma Italiana degli Autorappresentanti in Movimento "Io, Cittadino!".
È un segno del cambiamento. Anffas è nata come associazione di famiglie, oggi è un’associazione di persone con disabilità intellettive e con disturbi del neurosviluppo e di famiglie. Al centro di Anffas ci sono le persone con disabilità che da sole, con i giusti sostegni, sanno riconoscere i loro diritti e rivendicarli, con pari dignità rispetto alla componente famigliare. L’intero evento le vedrà protagoniste, con uno spazio autogestito: gli spettacoli e i momenti artistici del convegno sono tutti curati da loro.

Un’altra sottolineatura riguarda la presenza forte di Anffas nel Forum Nazionale Forum Terzo Settore, con Claudia Fiaschi che interverrà alla vostra tre giorni.
La disabilità ha bisogno di politiche trasversali e chi meglio del Forum può rappresentare un ambiente dove far avanzare una nuova cultura sulla disabilità che guardi alle persone con disabilità come cittadini che hanno diritto a condizioni di parità. A Claudia Fiaschi abbiamo chiesto il punto di vista del Forum su cosa può rappresentare l’associazionismo famigliare nella riforma del Terzo settore, noi siamo la più grande associazione famigliare d’Italia.

Rispetto agli otto workshop, cosa possiamo evidenziare?
Sono uno più interessante dell’altro, andiamo a toccare tutti i temi più salienti dall’età evolutiva all’invecchiamento, dall’autismo alla sessualità. Grazie a Telethon faremo il punto sullo stato dell’arte della ricerca sulle malattie rare, che consentono di avere nuove prospettive di cura e di approccio per disabilità che fino a pochi anni fa non le avevano. Un’indagine interna fatta qualche anno ha evidenziato che su un campione di 30mila persone circa il 70% – specie fra gli over40 – non avevano avuto una diagnosi. Oggi invece grazie alle frontiere avere una diagnosi precoce è possibile: la diagnosi non è un’etichetta o un codice ma indicare esattamente le cause del disturbo o della sindrome consente di intervenire efficacemente, magari non hai una cura ma hai un protocollo per poter fare interventi efficaci, senza diagnosi invece gli interventi sono approssimativi.