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Def 2019, ovvero la statalizzazione dell’inclusione sociale

Anche nel Documento di Economia e Finanza portato in consiglio dei ministri da Conte e Tria il Terzo settore e il non profit (definito pervicacemente ancora una volta "no profit") rimane completamente in disparte e ancellare rispetto all'intervento pubblico. Come era stato per il contratto di Governo e la legge di Bilancio

di Redazione

Ci risiamo. Malgrado il documento fin dal titolo faccia un esplicito richiamo all’inclusione sociale (“Def 2019: per il ritorno alla crescita e all’inclusione sociale”) già dalla nota diffusa ieri dalla presidenza del consiglio dei ministri si sottolinea che «la strategia dell’Esecutivo ribadisce il ruolo degli investimenti pubblici come fattore fondamentale di crescita, innovazione, infrastrutturazione sociale e aumento di competitività del sistema produttivo». Ci risiamo perché ancora una volta il Governo gialloverde individua nella leva pubblica il fattore determinante per assicurare la tenuta sociale del Paese, senza considerare le spinte innovative in termini di modelli di intervento e modelli di governance che arrivano dal sociale. Ci risiamo, si diceva. Perché questo è esattamente lo stesso atteggiamento pregiudiziale e sospettoso nei confronti della società civile e dei corpi intermedi, specie quelli votati all’interesse generale, che abbiamo già riscontrato troppe volte in forme diverse in questi mesi di governo: dalla sostanziale assenza di riferimento a riguardo nel contratto di Governo all’inopinato raddoppio dell’Ires nella legge di Bilancio (poi rientrato, ma mai spiegato) passando per lo spazzacorrotti.

Ci risiamo perché nella bozza del Def che circola in queste ore, che oggi dovrebbe approdare in Parlamento, e in particolare nella sezione denominata “Programma nazionale di riforma” la dizione “Terzo settore” in 132 pagine compare appena due volte

Ci risiamo perché nella bozza del Def che circola in queste ore, che oggi dovrebbe approdare in Parlamento, e in particolare nella sezione denominata “Programma nazionale di riforma” la dizione “Terzo settore” in 132 pagine compare appena due volte. La prima nell’ultimo rigo nel focus dedicato alle misure in materia di semplificazioni, la seconda a pag 130 quando si dice che «Sul versante delle imprese e degli enti del Terzo settore sono state promosse iniziative dirette ad incentivare l’introduzione di principi di responsabilità sociale e l’utilizzo di schemi di bilancio sociale».

Quanto a “non profit” la ricorrenza è apri a zero. Compare invece una volta il termine equivoco di “no profit” quando si dice che l’intendimento del Governo è quello di valorizzare la «forme di collaborazione e partnership tra la sfera pubblica e il mondo dell’associazionismo no profit». Confinando, ci risiamo, ancora una volta il non profit, ovvero, caro governo, le organizzazioni non lucrative (e non quelle che non producono profitto a cui sottende la formula “no profit”) esclusivamente al mondo dell’associazionismo. Tutto ciò malgrado la riforma del Terzo settore annoveri fra gli Ets (enti del Terzo settore) un ventaglio molto più largo che va dalle Fondazioni alle cooperative sociali, che come le nuove imprese sociale (zero ricorrenze nel Def) sono soggetti produttivi pur appartenendo alla galassia del Terzo settore.

Conto questa ondata di neostatalismo il mondo del Terzo settore dovrebbe alzare la voce

Stefano Zamagni

Non da solo, il professor Stefano Zamagni, nuovo presidente della Pontificia accademia delle Scienza sociali e una delle anime della prima edizione del recente festival nazionale dell’economia civile a cui hanno preso parte sia il presidente del consiglio Giuseppe Conte, sia il ministro dell’economia Giovanni Tria in più occasioni da queste stesse colonne ha messo in guardia il mondo del non profit dal rischio di un neostatalismo molto forte di fronte al quale il Terzo settore dovrebbe incominciare a battersi e ad alzare la voce. Se qualcuno per muoversi aspettava segnali di un’inversione di tendenza da questo Def rimarrà deluso.


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