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Sindrome di Wiskott-Aldrich: studio clinico dimostra l’efficacia della terapia genica

Lo studio ha coinvolto 8 pazienti trattati con successo grazie a un protocollo di terapia messo a punto all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano

di Redazione

La terapia genica si conferma una cura efficace anche per la sindrome di Wiskott-Aldrich, una malattia genetica rara e potenzialmente fatale che colpisce le cellule del sangue. A dimostrarlo sono i risultati dello studio clinico pubblicato oggi su Lancet Haematology e coordinato dal professor Alessandro Aiuti – professore di Pediatria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e vice direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) di Milano. Lo studio, che ha coinvolto 8 pazienti ed è stato avviato nel 2010, è stato possibile grazie all’alleanza strategica e innovativa tra IRCCS Ospedale San Raffaele, Fondazione Telethon e GlaxoSmithKline, trasferita a Orchard Therapeutics nel 2018, e si basa su oltre 20 anni di ricerca d’avanguardia svolta nei laboratori dell’istituto SR-Tiget.

Che cos’è la sindrome di Wiskott-Aldrich?

La sindrome di Wiskott-Aldrich (WAS) è una malattia causata da una singola mutazione nel gene che codifica per la proteina WASp. Gli effetti di questa mutazione si manifestano principalmente a livello delle piastrine e delle cellule del sistema immunitario che sono presenti in numero ridotto e funzionano male. Le conseguenze per i pazienti sono gravi: continue emorragie, un rischio maggiore di infezioni, tumori e malattie autoimmuni e infiammatorie, oltre alla presenza cronica di eczemi diffusi sulla pelle. A oggi l’unica soluzione disponibile – benché non per tutti e con tutti i rischi associati – è il trapianto di midollo da donatore. Le cose potrebbero però cambiare presto, come suggeriscono i risultati dello studio clinico che ha visto 8 pazienti con WAS trattati con successo utilizzando un protocollo di terapia genica messo a punto nei laboratori di SR-Tiget.

Come funziona il protocollo di terapia genica?

I ricercatori hanno prelevato le cellule staminali del sangue dai pazienti e hanno inserito al loro interno la versione corretta del gene per WASp, così che queste siano in grado di differenziarsi in piastrine e globuli bianchi sani. Per inserire correttamente il gene nelle cellule malate, i ricercatori hanno utilizzato un cosiddetto vettore lentivirale: un virus della famiglia dell’HIV modificato e reso innocuo in laboratorio. L’idea è quella di sfruttare la naturale capacità dei virus di penetrare nelle cellule e rovesciare al loro interno il materiale genetico che contengono, utilizzandoli come veri e propri mezzi di trasporto intelligente per consegnare la terapia.

«Nelle cellule, oltre al gene, viene inserito anche un suo “promotore naturale”, il cui compito è controllarne la sintesi in proteina. Questo fa sì che le cellule del paziente, una volta trattate, producano la proteina WASp nella quantità giusta, in modo fisiologico», spiega Francesca Ferrua, pediatra prima firma dello studio pubblicato, insieme a Maria Pia Cicalese. «Questo aspetto è fondamentale per ridurre al minimo il rischio di qualsiasi tipo di effetto collaterale».

I risultati ottenuti parlano da soli. «Tutti i pazienti coinvolti nel trial clinico – il primo trattato nel 2010 e l’ultimo nel 2015 – stanno bene e non presentano più le continue infezioni, i disturbi autoimmuni e infiammatori o le gravi emorragie associate alla malattia», spiega Alessandro Aiuti. «Il loro sistema immunitario è tornato a funzionare e produrre anticorpi. Il numero delle piastrine è aumentato considerevolmente, e anche se rimane inferiore alla norma, consente ai pazienti di fare una vita normale».
I prossimi passi? «È iniziato da poco un nuovo studio clinico che prevede il congelamento delle cellule staminali dopo la loro modifica con i vettori virali», aggiunge Aiuti. Questo aprirebbe la possibilità di trattare i pazienti in ospedali distanti rispetto ai laboratori dove vengono curate le cellule, attraverso la spedizione del materiale biologico dopo averlo opportunamente congelato. «Una possibilità che consentirebbe, nel prossimo futuro, di allargare e semplificare l’accesso a questo tipo di terapie».

Il gruppo di ricerca ha lavorato grazie ai finanziamenti ricevuti da Fondazione Telethon.