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Primo Levi, in scena la sua domanda senza pace

Per i 100 anni del grande scrittore, a Torino, Valter Malosti ha portato in scena il suo libro più famoso, “Se questo è un uomo”. Uno spettacolo che conquista il pubblico pur lasciandolo senza fiato. Un esempio di vero teatro civile, libero da moralismi

di Giuseppe Frangi

Il 31 luglio di 100 anni fa nasceva Primo Levi. Un personaggio chiave nella costruzione di una coscienza civile dell’Italia di oggi. A Torino, la sua città, ci si è mossi per tempo, in particolare grazie ad un ciclo di spettacoli, davvero esemplare, varato da Teatro Piemonte Europa, diretto da Valter Malosti. L’esordio del ciclo è avvenuto con il pezzo forte: la messa in scena del libro più importante di Levi, uno dei grandi libri del secolo, “Se questo è un uomo”. Lo scrittore aveva tratto anche una versione teatrale del suo romanzo, ma Malosti che ha firmato la regia e che è anche protagonista in scena, ha preferito lavorare sul testo originale, con una drammaturgia molto fedele realizzata insieme a Domenico Scarpa.

Lo spettacolo, in scena in un Teatro Carignano sempre tutto esaurito, è un’ora e 50 minuti di narrazione a memoria, che tiene il pubblico in uno stato di tensione e di commozione continua. Accade infatti che il testo incarnato e rivissuto dall’attore solo in scena, ne porti pienamente allo scoperto il tessuto drammatico. È un testo che vive davanti ai nostri occhi, non più semplicemente il racconto di un accaduto. Il teatro ci porta in un qui ed ora che fa delle parole di Levi parole che bruciano sulla pelle di ogni uomo, anche di coloro a cui è stata risparmiata un’esperienza come quella dei campi di sterminio.

La messa in scena di Malosti ha infatti questo grande merito: portare a galla quel nodo di coscienza che rende unico questo testo di Primo Levi rispetto alle tante narrazioni sulla tragedia dei lager. Il nodo è la domanda che detta il titolo stesso del libro e che assilla lo scrittore, perché lui stesso sa di non potersene tirare fuori.

La negazione dell’umano che Levi sperimenta nei mesi di permanenza ad Auschwitz è una condizione da cui non vengono risparmiate neanche le vittime. Neanche lui se ne sente al riparo. Anzi, la forza della narrazione sta proprio in questa coscienza che lo assilla di essere stato anche lui risucchiato dall’ingranaggio di questa negazione. E con lui anche noi che ascoltiamo siamo portati a porci quella domanda, a non sentirci più un po’ moralisticamente estranei a quelle dinamiche.

Levi/Malosti a tratti guardano in faccia quest’uomo dalla coscienza orrendamente devastata. È ad esempio il momento in cui Levi viene sottoposto all’esame per verificare la sua preparazione in chimica. Davanti al Doktor Pannwitz che lo interroga, Levi ha la percezione di trovarsi davanti alla vetrina di un acquario che sespara due specie diverse. «Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo», scrive Levi e rinnova con la sua voce Malosti.

In realtà quella vetrina non è una parete impermeabile, e Levi si trascina la terribile fatica di dover sopportare questa avvenuta contaminazione. Se ne accorge quando, dopo lo scoppio di uno dei crematori di Birkenau, uno dei responsabili viene messo a morte per impiccagione. “Kameraden, ich bin Letze”, aveva gridato. “Compagni, io sono l’ultimo”. L’ultimo uomo, nel senso che abbiamo sempre inteso con dicendo “uomo”. Quel grido, scrive Levi «penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi».

Sono parole che ci vengono restituite in tutta la loro intensità e radicalità grazie alla voce viva di chi le ha portate in scena. A Malosti il grande merito di averle riproposte nella loro drammatica nudità. In questo modo il libro di Levi ci viene proposto nella sua chiave vera di una grande interrogazione sull’umano, sul mistero del male devastante che ha segnato quel periodo di storia ma che resta come domanda che tocca la vita di tutti.


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