Economia & Impresa sociale 

Provider, le piattaforme digitali del secondo welfare

In Italia sono 78, di cui solo 30 proprietarie del portale attraverso cui operano. I lavoratori registrati sono 1,7 milioni, di cui otto su dieci attivi. Nel complesso il mercato potenzialmente potrebbe valere 21 miliardi di euro. Un'anteprima dell'indagine pubblicata sul numero di VITA di maggio

di Lorenzo Maria Alvaro

Secondo una recente indagine Censis-Eudaimon vale 21 miliardi di euro il mercato potenziale delle piattaforme digitali che offrono servizi di welfare. Quali sono dunque gli attori in campo? Quali servizi offrono? E quale la platea di lavoratori interessati? Il primo censimento dei provider di welfare aziendale è stato realizzato lo scorso anno dall’Università Cattolica e dalla società di consulenza Valore Welfare. Scorriamolo.

I numeri
I provider italiani di secondo welfare sono 78 ma soltanto 30 risultano proprietari della piattaforma online utilizzata dai lavoratori: il portale è un’interfaccia web dove si incrociano domanda e offerta. «L’indagine è stata indirizzata ai 30 provider proprietari», sottolinea Luca Pesenti, docente di sistemi di welfare alla Cattolica di Milano e coordinatore della survey, «e si è svolta a fine settembre 2018. Hanno risposto 20 aziende, rappresentative di una quota di mercato stimata in non meno dell’80%». I lavoratori registrati sui portali dei provider sono 1,69 milioni e l’82% di loro ha utilizzato almeno una volta beni e servizi presenti nei vari portali. Il budget medio disponibile per i di erenti livelli di inquadramento è di 2.522 euro per i dirigenti, 1.441 euro per i quadri, 1.334 euro per gli impiegati e 519 euro per gli operai. C’è poi il tema del premio di risultato e la possibilità di trasformarlo in welfare aziendale. «I provider hanno dichiarato di aver raccolto da questa fonte circa il 20,4% del loro fatturato; inoltre meno del 30% dei lavoratori ha scelto la conversione del premio di risultato in beni e servizi di welfare. Infine, dalla ricerca emerge che in media il 13,3% del budget disponibile (cosiddetto “Conto Welfare”) per ciascun lavoratore resta inutilizzato», aggiunge Pesenti. In genere, il denaro non destinato a servizi di welfare aziendale viene in prevalenza destinato ai fondi pensione o scivola nel “Conto Welfare” dell’anno successivo.

Il censimento ha monitorato anche le aziende che si appoggiano alle piattaforme. Nello specifico sono state censite «imprese con almeno un servizio di welfare attivo, ivi comprese quelle riferibili a comparti — come il metal- meccanico — in cui elementi di welfare aziendale sono previsti nel contratto nazionale», si legge nel report. Le aziende sono dunque 19.090. Il 45,9% è attivo nell’industria, il 22,1% nei servizi, il 19,3% nel commercio, il 9,6% costruzioni, e il 3,1% nell’agricoltura. Nello studio è stata realizzata anche una suddivisione per classi dimensionali: al primo posto (51%) vi sono i gruppi con oltre 100 dipendenti, seguiti da aziende con meno di 50 dipendenti (32,1%); al terzo posto le imprese con il personale che oscilla fra i 50 e i 99 dipendenti (16,9%)

I servizi
«Numerose ricerche, da ultimo il secondo Rapporto sul welfare occupazionale curato da Adapt per Ubi Banca, ci confermano che le misure per la famiglia sono le più apprezzate dai lavoratori, seconde solo alle forme di assistenza sanitaria integrativa e preferite sia agli strumenti di sostegno al reddito (buoni spesa) sia alla previdenza complemen- tare». Emmanuele Massagli, presidente di Aiwa, l’associazione che rappresenta i provider del settore sottolinea che «gli spazi aperti dalla riforma del 2016 hanno permesso la oritura di regolamenti e contratti sempre più originali, contenenti misure dedicate all’incremento del benessere, della salute, della formazione dei dipendenti e dei loro figli». Certamente le ragioni di questo apprezzamento «sono da ricercarsi anche nel costante indebolimento delle politiche pubbliche rivolte alla famiglia. Non è, però, solo un nodo economico, ma di progettazione dei servizi: amministrazioni pubbliche, sempre meno capaci di comprendere i variegati bisogni dei cittadini, incentivano questi a rivolgersi all’unica realtà strutturata con cui interagiscono, l’azienda. Una crescita che però è anche una prova di come stia cambiando la natura del rapporto di lavoro, non più costruito attorno al tradizionale scambio tempo-lavoro-salario, ma sempre più frequentemente a risultato (premio di produttività), autonomo (partita Iva) a distanza (lavoro agile) e pagato non soltanto con moneta, ma anche con beni e servizi. Accade in Italia come in tutto il mercato del lavoro occidentale», sottolinea Massagli.

Una svolta culturale
Per Andrea Verani Masin, direttore commerciale di DoubleYou srl, «è del tutto evidente che l’accelerazione di questo tipo di servizi è legata ad una normativa favorevole. Ma oggi il welfare aziendale, quello libero e volontario, è sempre più diventato un fattore competitivo del business». Questo significa, per il direttore commerciale, che «se anche le regole dovessero cambiare e venisse meno il trattamento premiante dal punto di vista fiscale non ci sarebbe una contrazione dell’offerta. Cambierebbe, adeguandosi ai nuovi scenari, ma la trasformazione culturale è ormai avvenuta…


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