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Un’immagine vale davvero più di mille parole?

Riflessioni di un pubblicitario sull’iconologia che arretra e l’affabulazione che avanza. La retorica verbale, rozza, ripetuta, semplificante, ha spazzato via quella visiva. Le parole all’attacco delle immagini, di facilissima memorabilità, mentre il visivo scolorisce e scompare come acqua nell’acqua, per usare una metafora di Borges. L'urlo e il dolore di Aylan e Josefa si dissolvono nella chiacchiera reiterata e social. Forse abbiamo perduto la capacità di simbolizzazione.

di Doriano Zurlo

L’affermazione inequivocabile di Matteo Salvini, dato in caduta di consensi nelle settimane appena precedenti il voto, impone qualche riflessione che, a uno sguardo attento ai fenomeni legati alla comunicazione, forse non risulterà troppo ovvia.

Le analisi dei “professoroni” (quelli che il Ministro dell’Interno addita tra le cause dei mali d’Italia) sono febbrili. Lo sconcerto è palese e non è così sicuro che i consueti paradigmi – vittoria della demagogia sul ragionamento, e così via – siano sufficienti.

Fatte salve le icastiche evidenze – tipo che buttarla sull’antifascismo non smuove nulla, che la Sinistra rimane arroccata in un radical-chicchismo colpevole e impotente, che i 5 Stelle passeranno alla storia come quelli che hanno consegnato il desiderio di onestà degli italiani né più né meno che al socio ventennale di Berlusconi – fatto salvo tutto questo rimane una considerazione; molto generalista, involontariamente epocale, ma piuttosto puntuta per chi si occupa di comunicazione: l’immagine non conta più nulla.

È un fatto. Quella di Salvini è una vittoria costruita su verbalizzazioni potenti e dominatrici. Il luogo comune dice ‘un’immagine vale più di mille parole’. Sembra essere, mai come ora, una baggianata bell’e buona.

Eppure, non siamo forse immersi in una iconosfera pervasiva, avvolgente, moltiplicata dal gioco di specchi del double e triple screen, dove chi controlla i mezzi di diffusione dei materiali visivi ha, di fatto, il potere di orientare il consenso? Come dice Horst Bredekamp, in un suo libro recente: « miriadi di immagini che giorno dopo giorno, a mezzo smartphone, canali televisivi, Internet e giornali cartacei viene propagata in tutto il globo, quasi avvolgendo la civiltà attuale in un bozzolo iconico ».

Facciamo un piccolo salto indietro. Solo quattro anni fa, nel 2015, Il Manifesto pubblicava in prima pagina la foto del piccolo Aylan, il bambino curdo con la maglietta rossa, il cui corpo senza vita veniva sbatacchiato sulla battigia di una costa turca. Un’immagine che aveva scosso fortemente le coscienze ed era diventata il simbolo del dramma di chi scappa dalla guerra. Il Manifesto corredava la foto con un titolo che, in un concorso pubblicitario, avrebbe vinto senza problemi il primo premio per il copywriting: ‘Niente asilo’. Intanto l’Independent riportava la testimonianza di Nilufer Demir, autrice della foto: « Aylan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti ».

Oggi, dopo quattro anni, dopo le elezioni europee 2019, quel grido è muto. Di quel grido non si sente più nemmeno l’eco.

Più forte, tanto da sovrastarlo, risuona: ‘È finita la pacchia! Prima gli italiani! Le ONG sono organizzazioni criminali!’. Parole all’attacco delle immagini, di facilissima memorabilità, mentre il visivo scolorisce e scompare come acqua nell’acqua, per usare una metafora di Borges.

Quello che è sconcertante non sono le affermazioni in quanto tali. In fin dei conti, si tratta dei suoni un po’ vuoti della propaganda. Oltretutto, il turpe eloquio della politica non ha colore; slogan e retorica la fanno da padrone sempre, indipendentemente dallo schieramento. Però, l’eccezione è palese. L’inasprirsi di certe esternazioni, se in genere conosce picchi di virulenza sotto elezioni o alla vigilia di una crisi di governo, con il Truce è costante. La temperatura è sempre la stessa: altissima, incandescente. Il tono è feroce, sotto l’apparenza (a volte) paciosa. La persistenza nella riproposizione di formule verbali consolidate ha poi prodotto i noti esiti elettorali.

Cosa resta? Che la retorica verbale ha spazzato via quella visiva. A nulla è servita, lungo i dieci mesi di attività ministeriale, l’ostentazione delle immagini più crude dei salvataggi in mezzo al Mediterraneo. In rete ne sono circolate tante, e anche nei programmi televisivi meno allineati con la nuova direzione RAI. Soffermiamoci su una in particolare. A luglio 2018, la Ong Open Arms trovò a 80 miglia dalla costa libica il relitto di una imbarcazione nella quale rimanevano, non ancora inghiottiti dal mare, due cadaveri e una donna viva: Josefa. Lo sguardo atterrito di questa donna non lo potrà mai restituire nessuna finzione scenica. Come nel caso di Aylan, siamo in presenza di una immagine dalla potenza iconica devastante, perturbante, che invade lo spazio fisico e cerebrale della realtà e lo divelle, lo sradica. Non tutto ciò che è visivo ha questa forza. Non tutte le immagini ‘parlano’ come questa, non tutte hanno il potere di rispondere così al nostro sguardo, quasi fossero loro a guardare noi e non il contrario. La foto di Josefa appartiene a questa categoria.

Assumiamo che la capacità di catturare l’occhio e di soggiogarlo entro il proprio dominio, in fotografia avvenga per gli stessi motivi per cui avviene in pittura: grazie a certe caratteristiche formali, che possono essere intenzionali o casuali. È la disposizione degli elementi e la loro espressività che lascia emergere l’invisibile sotto al visibile, come un mistero racchiuso dentro la materia fotografica o pittorica. Nel caso di Josefa ci troviamo davanti a una Pietà, come quelle tramandate dalla tradizione scultorea. O a una Deposizione, come quella magnifica di Rogier van der Weyden. Josefa è infatti accasciata tra le braccia di un soccorritore, che sembra cingerla come la madre del Cristo cingeva il Figlio deposto dalla croce. Tuttavia, l’immagine non è la stolida ripetizione di questo tema. In primo luogo perché si tratta dell’istantanea di un evento drammatico che stava accadendo in quel momento; e questo mette in secondo piano gli aspetti formali. Ma soprattutto perché Josefa ha gli occhi spalancati in una espressione di terrore senza fine. Un particolare che scardina, mentre lo aggiorna, la lettura consueta che si fa dell’iconogramma Pietà. Un’espressione inconcepibile. Quello è lo sguardo di chi ha davanti non la morte in genere, con la quale, forse, si può anche venire a patti, ma la morte insensata, nell’abbandono terrificante del nulla marino. È uno sguardo che non conosciamo, che non ci è dato esperire in quel modo. Cosa ci fanno quegli occhi spalancati a raccontare l’indicibile? Nella Deposizione l’artista raffigura il Cristo con gli occhi chiusi, com’è ovvio. Ma forse sono proprio quegli occhi chiusi a rendere sopportabile la visione. Che ci fai ancora viva Josefa?

Cosa ci fai lì, a galleggiare su un relitto col corpo già rigido della morte ma gli occhi vivi, incastonati in un orrore che a noi non è dato vedere? Chiudi gli occhi, Josefa. Smettila di turbarci.

Ecco. Questo è il potere che si sprigiona nell’incontro tra un sintagma fotografico di singolare riuscita iconica e uno sguardo che lo percorre.

Dietro a questa vicenda, il nostro per certi versi insondabile Ministro dell’Interno twittò: «Nonostante la nostra disponibilità di porti siciliani, la nave Ong va in Spagna, con donna ferita e due morti… Non sarà che hanno qualcosa da nascondere??? ».

Raccolse consensi entusiastici, come del resto fa da un anno a questa parte. Ci sono molte cose in tutto questo che hanno del paradossale. Una, forse, è sfuggita: l’ostinazione con la quale arretra, ripetutamente e senza segnali di inversione di tendenza, l’icona di fronte al verbo. Come un soldato prigioniero del nemico.

Potrebbe essere questa l’immagine dell’immagine che patisce il dispotismo della parola: con le mani alzate e senza via di fuga. Possibile? Non era il contrario? La parola che sconfigge l’immagine è frusta, scontata, facilmente contestabile, noiosa nella sua ripetitività martellante, ottusa per molti versi, e pochissimo argomentata. Ma gli occhi di Josefa si chiudono. I tweet del Ministro gli rubano la scena, ne occupano, addormentandolo, opacizzandolo, lo spazio iconico.

Come fa? Non tiriamo in ballo la presunta ignoranza che affliggerebbe chi vota Salvini. Se una politica seria si vuole fare in opposizione alla sua arroganza, non si può partire da quella stessa arroganza che proprio lui ha sbaragliato. Anche perché i conti non tornano. Se davvero i suoi elettori sono semi analfabeti, come certo elitarismo stucchevole vorrebbe, non dovrebbero essere esposti più facilmente all’influenza delle immagini piuttosto che a quella delle parole, per quanto facili e alla portata? Non dovrebbero lasciarsi muovere più dai sentimenti che suscita la sofferenza di un essere umano piuttosto che farsi blandire dagli slogan?

Anche Salvini usa le immagini, ovviamente. E lo fa senza lasciare nulla al caso. Ma nella civiltà dell’informazione le immagini non valgono più. Si equivalgono; forse abbiamo perduto la capacità di simbolizzazione. Si dica che è colpa delle fake news costruite ad arte. Non è così. Si dica che è colpa di un regime di informazione che nasconde i drammi che stanno avvenendo nel Mediterraneo. Non è così. Il tentativo di nascondere c’è, e crea anche situazioni ridicole come la protesta dell’ambasciata di Svezia per il servizio del TG2 sull’immigrazione in quel Paese, pieno di falsità e propaganda. Ma nel mondo attuale tutti vedono tutto; tutti vedono tutte le immagini che ci sono e che girano senza sosta, quasi in modo autonomo; non c’è possibilità di esclusione a meno di non perseguirla con molta ostinazione e blackout di ogni armamentario elettronico.

Allora il fatto è che gli occhi di Josefa non ci colpiscono più. Nel mondo in cui le immagini sono diluvio costante, Josefa passa via insieme ai gattini. L’emozione è momentanea, quando c’è, poi la realtà si scrolla via, con un colpo di pollice, così come si scrollano le foto su Instagram o su Tinder. Una dietro l’altra, una dietro l’altra. Tra lo slogan belluino e la foto del negher che affoga, vince lo slogan, la parola che raduna, la voce che fa battere il cuore, forse perché ha una dimensione più confidenziale, intima, vicina. La parola tocca corde più rassicuranti, in un mondo iconico che spaventa perché è indecifrabile, minaccioso, ingannevole. In cui non ravvediamo alcun senso.

Ha ragione Jean Baudrillard? È stato compiuto il delitto perfetto? È stata uccisa la realtà? «Viviamo in un mondo in cui la suprema funzione del segno è quella di far scomparire la realtà e di mascherare nel contempo questa scomparsa. Oggi l’arte non fa altro. Oggi i media non fanno altro. Ecco perché sono condannati al medesimo destino ».

Quante Josefa e Aylan ci vorranno, per tornare a ‘immaginare’ di essere umani?


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