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Le altre Noa: un abuso aumenta il rischio di suicidio da 3 a 6 volte

Non è stata eutanasia, ma un lasciarsi morire. A 17 anni è comunque una sconfitta per tutti. L’unico contributo possibile forse è quello di illuminare non Noa, quanto i temi, i dolori, le fragilità che hanno abitato la sua vita. Perché questa informazione possa servire a qualcuno. Un'intervista con Paola De Rose, neuropsichiatra dell'Infanzia e dell'Adolescenza del Bambino Gesù di Roma

di Sara De Carli

Non è stata eutanasia, anche se l’Olanda la consente a partire dai 12 anni e dai 17 anche senza il consenso dei genitori. Tutti i giornali italiani ora stanno rettificando. Noa Pothoven sembrerebbe essersi lasciata morire di fame, accompagnata da un’assistenza medica specializzata. Dopo due abusi sessuali subiti e nascosti per molto tempo, dopo l’anoressia, la depressione, la fatica di vivere. Dopo lunghi periodi passati fra ospedali e centri specializzati e anche trattamenti sanitari obbligatori proprio per impedire che si suicidasse. Per l’eutanasia, pare avesse ricevuto risposta negativa nel 2018 da un centro dell’Aja specializzato. C’è chi ha usato sui social parole molto forti, di un suicidio “allestito in salotto” con tutti i cari che dicono “ti capiamo” e ti salutano. A seconda dei punti di vista si potrà dire che Noa è stata lasciata sola dalla sua stessa famiglia o che Noa è stata sostenuta dalla famiglia nella sua scelta. A me ancora una volta – come accade dinanzi a fatti di cronaca che lasciano tutti «congelati», anche gli esperti, come ci è stato detto questa mattina, declinando un’intervista – sembra che sia comunque una sconfitta per tutti. E che l’unico contributo possibile sia quello di illuminare non Noa, quanto i temi, i dolori, le fragilità che hanno abitato la sua vita. Perché questa informazione possa servire, magari, a qualcuno. Paola De Rose è neuropsichiatra dell'Infanzia e dell'Adolescenza dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Lavora soprattutto con bambini e adolescenti che hanno subito maltrattamenti e abusi. È lei che per il Bambino Gesù ha seguito la nascita di Jams, la prima serie tv rivolta a un pubblico di adolescenti, per parlare loro di abusi. «Ci hanno chiesto una cosa impossibile, parlare dell’argomento più delicato del mondo, nella fase più delicata della vita, con un linguaggio che fosse tecnico ma comprensibile e accessibile per i bambini dal punto di vista emotivo. Abbiamo fatto un intervento chirurgico su ogni frase. In Jams sono risuonate tutte le storie di abuso infantile che abbiamo affrontato, circa 2.000 in 10 anni».


Dottoressa, dal punto di vista clinico, cos’è che scatta o può scattare in ragazze che vivono l’esperienza dell’abuso, addirittura ripetuto?
C’è un bilancio da fare sempre tra fattori di rischio e fattori di protezione. Definire un percorso unico è impossibile e questa è la bellezza dell’essere umano. Tra i fattori di rischio ci sono con tutta evidenza gli eventi sfavorevoli, anche multipli, non parlo solo di abusi: la loro frequenza, l’intensità, l’età in cui sono avvenuti e la reazione del contesto. Tra i fattori protettivi ci sono le caratteristiche personali che ognuno di noi ha, le risorse personali e – ancora una volta – il contesto: il livello intellettivo è un fattore di protezione, come pure il contesto ambientale che permette di avere supporto. La storia di ognuno si muove fra caratteristiche individuali, fattori di rischio e fattori di protezione: ognuno di questi può cambiare il percorso e l’esito.

Come reagisce il cervello a seguito dell’esperienza di abuso?
Gli eventi avversi – abusi, maltrattamenti, violenza assistita, non c’è tanta differenza – scatenano la risposta allo stress, con meccanismi di reazione più o meno funzionali. Si attivano meccanismi biochimici che modificano il funzionamento cerebrale: si iperattiva l’area della risposta emotiva e si disattiva quella della risposta cognitiva. C’è una percezione di sé negativa, una riduzione della piacevolezza delle attività quotidiane, una disregolazione delle emozioni, un’aggressività rivolta a volte verso se stessi e a volte all’esterno, difficoltà nella relazione con gli altri, ritiro, difficoltà scolastiche, disturbo del sonno. Gli studi e anche la nostra casistica mostrano che gli eventi avversi aumentano dalle 3 alle 6 volte il rischio di suicidio e psicosi. Aver subito un abuso quindi è un fattore di rischio. Dobbiamo lavorare quindi sui fattori protettivi, che possono determianre buoni esiti: la rilevazione precoce del disagio, il parlarne, l’offrire uno spazio dove essere creduto, senza vergognarsene, la possibilità di chiedere aiuto. Ci sono molti percorsi efficaci, noi siamo molto guidati come clinici, sappiamo che alcuni percorsi funzionano meglio di altri, c’è anche la possibilità di terapie farmacologiche, percorsi con le famiglie, strutture, comunità, servizi territoriali…

Questo è un punto: perché Noa sembra aver detto “non ci sono posti per chi è come me” e al tempo stesso sta emergendo che è stata in diverse cliniche, anche con trattamenti obbligatori. Dal punto di vista dei servizi, l’Italia cosa offre? Ha le strumentazioni e le risorse giuste?
Abbiamo personale molto formato e una ottima sensibilità. Certo, il sistema territoriale potrebbe esser potenziato: penso in particolare alle comunità e alle psicoterapie offerte dalle Asl. Il Bambino Gesù ha una linea telefonica, lo 06.68592265, si chiama Lucy come l’amica di Charlie Brown: è un servizio H24 rispondono psicologi della nostra unità per raccogliere il disagio dei ragazzi e indirizzarli. Al Pronto Soccorso, all’ambulatorio, al ricovero. Oppure per indicazioni sul territorio.

Quanto è frequente il pensiero, come è stato per Noa, di non voler più vivere? Come si affronta e gestisce il pensiero del suicidio da parte di queste ragazze?
Uno motivi di ricovero in Neuropsichiatria infantile è proprio l’ideazione suicidiaria o un tentativo di suicidio. Si verifica. Molto spesso alle spalle ci sono eventi sfavorevoli, come dicevo prima. Non significa che tutti gli adolescenti che hanno vissuto un abuso poi rischiano il rischio suicidio, però il dato è che lo aumenta di 3/6 volte. Fanno molto i fattori protettivi. Bisogna sfruttare tutte le risorse personali dei ragazzi, accompagnandoli in lavori guidati di psicoterapia, supporto relazionale, trattamenti farmacologici, percorsi in comunità… Lavorare per abbassare i livelli di stress in modo da tirarli fuori da quella condizione di “tilt” in cui va il cervello. Importantissimo è il lavoro con le famiglie, tenendo conto che l’abuso traumatizza non solo la ragazza ma tutto il suo nucleo famigliare.

L’esperimento di Jams cosa rappresenta?
Un tentativo – con un linguaggio molto coraggioso – di fare sensibilizzazione e prevenzione primaria. Ci siamo rivolti a ragazzi dalla 4° elementare alla 3° media, la fascia più a rischio per trasmettere il messaggio che quando si capisce che c’è qualcosa che non va, si deve parlare. Non siamo entrati nel dettaglio di cosa può succedere dentro quella stanza, ma abbiamo fatto capire che se c’è un adulto che mi fa mantenere un segreto piuttosto che se si attiva un sistema di paura nei confronti di un adulto, bisogna parlare. Il messaggio va anche sugli amici, se vedi che un amico non è più lo stesso… parlane con un adulto di fiducia. Se è successo a te o un tuo amico parlane.


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