Cooperazione & Relazioni internazionali

Ong sotto attacco. Come uscire dall’angolo

Il Terzo settore, oggi, ha sempre più bisogno di capitale narrativo. E sempre meno di storytelling emozionale. Il rischio è sotto gli occhi di tutti: trovarsi disarmati in balia di campagne emotive di segno contrario. È il fenomeno delle cosiddette shitstorm, tempeste di discredito e odio. L'analisi di Marco Dotti che insieme a Luigino Bruni, sul numero del magazine di giugno, anticipa un percorso che VITA vuole fare insieme alle organizzazioni

di Marco Dotti

La nostra vita è piena di storie. Talmente piena che potremmo dire che l’intera esistenza è fatta di storie. Storie che ci vengono raccontate e storie che raccontiamo. Sono le storie, spiega Jonathan Gottschall, che ci hanno reso umani, anche sul piano evolutivo.

Narrare, non vendere
L’uomo, per Gottschall, autore di L’istinto di narrare, è infatti un animale atipico non solo perché dotato di parola, ma perché capace di racconto: è uno storytelling animal. Capire quali storie raccontiamo e come le raccontiamo, osserva Gottschall, al pari di quali storie ascoltiamo e come le ascoltiamo «può in- segnarci molto di noi» e del nostro radicamento in una dimensione esperienziale di vita buona. Dimensione che l’economista Luigino Bruni ha chiamato capitale narrativo. «Non confondiamo quello che io chiamo capitale narrativo con lo storytelling commerciale», avverte però Bruni. La «nuova pubblicità è sempre più una costruzione di racconti con il tipico linguaggio del mito, dove lo scopo è attivare l’emozione del consumatore, il suo codice simbolico, i suoi desideri, i suoi sogni – non solo, non più, i suoi bisogni. Per venderci i loro prodotti, le nuove imprese ci fanno sognare ricorrendo alla forza evocativa del mito (non più del logos). Lo storytelling delle imprese emozionali del capitalismo di oggi e di domani non ha nulla di gratuito proprio perché mancante di quella gratuità che faceva grandi le altre storie».

Il Terzo settore, oggi, ha sempre più bisogno di capitale narrativo. E sempre meno di storytelling emozionale. Il rischio è sotto gli occhi di tutti: trovarsi disarmati in balia di campagne emotive di segno contrario. È il fenomeno delle cosiddette shitstorm, tempeste di discredito e odio.

Storytelling e sovraccarico informativo
Radicalmente distinto da quello di menzogna, il concetto di shitstorm è di prepotente e urgente attualità, soprattutto negli ambiti “delicati” della reputazione delle ong e delle Organizzazioni non profit. Se la menzogna è caratterizzata dalla volontà di non ancorarsi al vero, fake news e tempeste d’odio prescindono da ogni riferimento al vero e, di conseguenza, generano stati di crisi anche in assenza di eventi critici (le ong, costantemente sottoposte ad accuse vaghe lo sanno…). Creano un mix di vero e falso, un verosimile che ha un solo scopo: produrre un effetto pratico. In questo caso: una contrazione della possibilità di agire e intervenire nella sfera pubblica da parte delle organizzazioni del Terzo settore. Il discredito del mondo “non profit” è, oggi, generalizzato e diffuso e si calcola che circa il 41% delle fake news circolanti nel nostro Paese riguarda, appunto, il cosiddetto Terzo settore. In particolare, la sua parte più strutturata e organizzata. Se questa ipotesi è vera, lo storytelling del bene non solo non basta e non serve più, ma rischia di essere l’innesco del proprio contrario. Serve uno scatto, qualcosa che recuperi proprio la nozione di capitale narrativo, che per struttura, evoluzione intergeneraziona- le, sedimentazione in esperienze condivise e storia è meno attaccabile. Capire e, di conseguenza, trovare i modi per conservare, accrescere, trasmettere anziché — tendenza che negli anni scorsi ha preso fin troppo il largo, ahinoi — dilapidare questo patrimonio di storie, gratuità ed esperienza riducendolo a mero storytelling emozionale, facile bersaglio della narrativa dell’odio è, oggi, una delle sfide aperte per chiunque si impegni nell’abito del Terzo settore. In un contesto nuovo, forse inedito per la storia umana: non siamo più solo circondati da storie. Siamo invasi. È un vero sovraccarico informativo che rischia di esaurire la nostra disponibilità all’ascolto, rendendoci muti al racconto. «Si è consumato il passaggio dalla fase del racconto a quella dello scontro», spiega lo scrittore Christian Salmon, che nel 2007 ha più di tutti contribuito a rendere popolare in Europa la nozione di storytelling, grazie al suo best seller Storytelling, la machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits. Oggi si racconta per attaccare, non per comunicare. La competizione fra storie non si fa solo a colpi di sensazionalismo ed emozioni, si fa servendosi di colpi bassi: fake news, menzogne articolate scientificamente, bullshit le cui principali vittime sono le istituzioni della società civile.

Eric Schmidt, presidente esecutivo della casa madre di Google, Alphabet, ha dichiarato che a grandi linee «servirebbe una capacità di memoria di 5 exabyte (ovvero 5 miliardi di miliardi di byte) per registrare tutte le parole che sono state pronunciate dagli umani dall’origine fino al 2003. Oggi si stima che questa medesima quantità di informazioni sia prodotta ogni due ore». Il sovraccarico è ingestibile, se non per algoritmi. Il discernimento è pressoché impossibile in questo campo minato. Internet, scriveva nel dicembre 2017 su Fortune John Winsor, in un articolo significativamente titolato “The end of stotytelling”, «ha trasformato dei consumatori per definizione passivi in produttori di storie voraci che competono» fra loro e con i “tradizionali” produttori di storie. Ognuno, di fatto, può diventare fonte a sé. È il delirio 2.0 e a peggiorare le cose, sotto l’era di Trump, c’è il fatto che le storie che circolano in rete (e, oramai, pressoché tutte le storie passano dalla rete) sono di- ventate nel loro complesso meno credibili. Siamo a un punto di svolta, spiega Winsor, «che dovrebbe portarci ad abbandonare la vecchia prospettiva del potere delle storie e della narrazione» e aprirci a qualcosa di nuovo o, meglio, indurci a guardare proprio a quell’idea di capitale narrativo proposta da Bruni.

La ricchezza del Terzo settore è sotto attacco
Ma che cos’è il capitale narrativo? È un capitale di cui le organizzazioni del Terzo settore sono state a lungo garanti e custodi, garantendone al contempo la trasmissione. Una trasmissione fondata su elementi cruciali come la gratuità (il dono) e la fiducia (la relazione). Il capitale narrativo, precisa Bruni, è qualcosa di molto più serio e profondo dello storytelling delle imprese. Quest’ultimo non punta a costruire o rafforzare relazioni, ma unicamente a implementare connessioni…


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