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Cooperazione & Relazioni internazionali

Lo scudo della viceministra Del Re: «Giù le mani dai cooperanti, per l’Italia sono un vanto»

Dalle township nere nel Sudafrica dell’apartheid ai campi profughi siriani: «Da ricercatrice sul campo con i figli al seguito vi dico che chi ha questa vocazione nella vita lascerà il segno»

di Redazione

Non so che valore aggiunto possa ave- re questa cosa». Reagisce così la vice ministra degli Affari esteri con delega alla Cooperazione internazionale in quota 5 Stelle, Emanuela Del Re, alla proposta di un’intervista che ripercorre la sua esperienza da ricercatrice, documentarista e cooperante sul campo, spesso con i figli al seguito, nelle aree di conflitto in Africa, nei Balcani e in Medio Oriente. Un valore aggiunto notevole verrebbe da rispondere. Mai fino ad ora, nella stagione dei taxi del mare, diventati brand di Governo, un membro dell’esecutivo parlando di ong e cooperazione internazionale aveva usato un lessico e una grammatica come quelli che — misurando ogni parola — sceglie la Del Re in questo dialogo.


Romana, classe 1963, sposata, due figli, sociologa ed esperta di politica internazionale, specialista di migrazioni e rifugiati, conflitti, questioni religiose e minoranze. Cos’altro dobbiamo sapere di Emanuela Claudia Del Re?
Vengo da una famiglia di persone che si sono sempre occupate molto di sociale. Fin da piccola ho avuto la fortuna di viaggiare molto e incontrare culture diverse. Ho vissuto in Paesi non sempre facili, ho fatto tante esperienze che mi hanno resa quello che oggi sono.

Due esperienze che l’hanno segnata più di altre?
Nelle township nere del Sudafrica dell’apartheid (nel suo ufficio alla Farnesina ha un poster di Mandela, ndr) e nel 1992 nell’Albania dove era appena caduto il regime. Lì ho vissuto presso una famiglia albanese in condizioni molto difficili, ma sono stata testimone di una transizione sociale straordinaria. Il mio background è di stampo accademico. Lì ho capito che il mio ambito sarebbe stato quello della ricerca sociale qualitativa basata sull’osservazione partecipante. Stare con le persone e condividere il più possibile le loro esperienze e le loro emozioni. È stato come aprire gli occhi su quella che oggi posso definire una vocazione. Una vocazione intellettuale e morale di chi vuole comprendere attraverso l’empatia. Le trasformazioni sociali dei Balcani, prima l’Albania per finire con il Kosovo, sono stati una grandissima messa alla prova: ho appreso moltissimo e rimango profondamente grata a tutti quelli che in quegli anni mi hanno accolto in situazioni molto difficili e hanno diviso con me un pezzo di pane, quando c’era pochissimo da mangiare.

Cosa si impara in quelle occasioni?
Oggi puoi scaricare da internet un’analisi sociale e studiare sulla base di quella. Oppure vivere in prima persona il fatto sociale che ti interessa. Fra i due approcci c’è un abisso: uno guarda col cannocchiale da lontano, l’altro è immerso nella vicenda attraverso sensazioni, emozioni, sguardi, incontri. Marcel Mauss lo definiva il fatto sociale totale, ovvero il fatto che quando succede qualcosa all’essere umano, non c’è alcun aspetto della vita che viene tenuto da parte: dagli aspetti biologici a quelli psicologici, il coinvolgimento è totale. L’altro aspetto che si impara col passare del tempo è che malgrado gli allarmi, le conseguenze sociali dei conflitti difficilmente conquistano le prima pagine dei giornali e delle tv. Così il racconto, i documentari che potevo fare io dai luoghi che studiavo diventavano sempre più importanti. Questo ha costruito dentro di me un forte senso di responsabilità. Il ricercatore non solo non può essere estraneo all’oggetto di analisi, ma deve anche darne testimonianza.

Tanto che lei in missione portava anche i figli…
Con l’osservazione partecipante entra in gioco tutta la persona, inclusi i suoi legami familiari. I miei figli sono parte del mio percorso. Giulio, che oggi ha 20 anni, è nato nel 1999 ed è venuto subito con me in Kosovo. Michele ha 4 anni di meno. Entrambi erano con me in Azerbaigian, in Israele, in Palestina e nei campi profughi siriani. Hanno sperimentato culture, hanno amici di qualunque gruppo sociale ed etnico. Sono molto orgogliosa di loro. Ai ragazzi dell’età dei miei figli serve capire il mondo, serve apprendere la lingua universale, che non sono l’inglese o il cinese, ma la lingua dell’anima. I miei figli poi sono stati importanti anche per la qualità delle ricerche, perché da ragazzi e adolescenti che si confrontavano con pari età dei campi profughi mi davano prospettive e angolature che hanno resto il mio lavoro più intenso e più vero…


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