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Sostenibilità sociale e ambientale

Le città, quel laboratorio che potrebbe cambiare il mondo

La partita del futuro si giocherà nelle città, non ha dubbi Elena Granata, architetto e urbanista al Politecnico di Milano. Non solo perché entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale vivrà in contesti urbani e perché le città già ad oggi consumano il 75% delle risorse naturali e sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali, ma perché proprio le città sono oggi i laboratori possibili e praticabili per i cambiamenti ecologici che sono cambiamenti di paesaggio

di Riccardo Bonacina

La partita del futuro si giocherà nelle città, non ha dubbi Elena Granata, architetto e urbanista al Politecnico di Milano. Non solo perché entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale vivrà in contesti urbani e perché le città già ad oggi consumano il 75% delle risorse naturali e sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali, ma perché proprio le città sono oggi i laboratori possibili e praticabili per i cambiamenti ecologici che sono cambiamenti di paesaggio, di raccordo città-campagna, di innovazioni tecnologiche, di rammendi e rigenerazioni di spazi, luoghi e comunità. Perché le città contemporanee sono il luogo della pluralità e della biodiversità che solo possono riprodurre vita e rigenerazione. È la biodiversità, le differenze che abitano ogni grande città (a partire da Milano a cui sono dedicate alcune belle pagine) che consente di reagire alle crisi e mutare in altro. Poggiando su una grande storia, quella dell’Europa che altro non è che un arcipelago di città.

Elena Granata sviluppa questa sua convinzione in “Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo” (Giunti editore, pp 234, 16 euro), non solo e non tanto con un impianto teorico ben solido e ricco di riferimenti autorevoli, ma con il racconto appassionato e appassionante di un vero e proprio viaggio intorno al mondo restituendoci esperienze note e meno note in cui, attenzione a queste figure strane, il politico-pedagogista, il paesaggista-avvocato, l’architetto-giardiniere, il designer-falegname, il neurobiologo-urbanista e l’artista-filosofo hanno cambiato le loro città. Da Milano a New York, da Copenaghen a Bogotà, da Rio de Janeiro a Medellin, da Tokio a Boston, da Rotterdam a Todmorden, piccola cittadina inglese.

Un campionario di esperienze che fa capire come risolvere un problema significhi cercare legami tra cose che non siamo abituati a mettere in relazione. Occorre, creatività, connessioni tra competenza, capacità di pensiero laterale. Coscienti che un mutamento riuscito non è quello che sostituisce un modello vecchio con uno nuovo, preventivamente studiato da esperti, ma è il risultato di un processo collettivo che vede coinvolti tutti i cittadini.

Un processo che deve evitare le trappole del bene assoluto, dell’architettura difensiva che rifugge la promiscuità e l’accessibilità, e dalle retoriche del friendly e dello smart, così friendly e così smart da sacrificare la materia più preziosa e plasmabile: le persone.

Non proverò a restituire qui il racconto delle tante esperienze e dei protagonisti che le hanno originate giacché impresa impossibile (fatelo da voi, ne val la pena). Le città di cui parla Eelena Granata ci interessano perché parlano di noi e perché ci raccontano progetti radicali che vanno alla radice dei problemi; ecologici, perché capaci di lavorare sulle interdipendenze, tra povertà e crisi ambientale; tra economia e cambiamenti climatici; tra mobilità e democrazia; tra educazione e spazi pubblici; e perché coesivi cioè pensati a partire dal loro territorio (naturale, culturale e sociale).


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