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“Selfie”, quando il turista perde ogni capacità riflessiva sulle cose

Corrado Del Bò è il secondo dei sette autori controcorrente che ci accompagneranno alla scoperta dei termini chiave per mettere a fuoco il senso delle vacanze. «Nel dark tourism la tragicità degli eventi diventa motivo del nostro svago. Ci comportiamo come se queste tragedie non fossero mai avvenute»

di Corrado Del Bò

Partiamo da una definizione strettamente filosofica. Possiamo definire il turismo come uno spostamento dal proprio luogo di residenza — al quale poi si fa ritorno dopo un determinato lasso di tempo relativamente breve e programmato per tempo — per ragioni di diletto.

Non per altre ragioni, come potrebbero essere ragioni mediche, di devozione religiosa, lavoro o affari. Naturalmente il diletto si può articolare in diverse forme, non tutte ovviamente responsabili.

Turismo responsabile, secondo la definizione che ne do nel mio libro Etica del turismo (Carocci, 2017), è la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni in ambito turistico e la disponibilità a modificare quelle azioni se le conseguenze sono negative. Propongo un’idea di turismo responsabile molto ristretta, che si allarga a seconda di ciò che consideriamo come negativo dal punto di vista delle conseguenze dell’agire turistico.

Quali sono le possibili conseguenze e i criteri di negatività?

Un primo criterio di negatività è l’insostenibilità dell’agire turistico. Da questo punto di vista, la più ovvia è l’insostenibilità ambientale, ma poi c’è anche l’insostenibilità economica degli investimenti turistici e c’è anche quella che chiamo un’insostenibilità civile, ossia certi comportamenti che sono diventati forme di onore verso personaggi tutt’altro che esemplari (è il caso del cosiddetto “turismo nero”) e, infine, c’è una insostenibilità legata al turismo stesso. In quest’ultima categoria di insostenibilità dell’agire turistico ricadono quei fenomeni oggi descritti come overtourism e che non solo creano problemi di sostenibilità ambientale, ma rendono insostenibile l’esperienza turistica stessa.

Un secondo criterio di insostenibilità ha a che fare con l’iniquità che si genera nei rapporti economici e sociali in ambito turistico. Qui dobbiamo segnalare che il turismo è configurato come un vero e proprio diritto per tutti, all’interno del Codice mondiale di etica del turismo adottato dall’Organizzazione Mondiale del Turismo (Omt) non è per tutti. Solo un “pezzo” di mondo fa turismo. Poi c’è un problema legato al fatto che i proventi del turismo non sono distribuiti equamente, con scambi economici che avvengono tutti all’interno del cosiddetto mondo ricco, nonostante l’azione turistica si sviluppi in gran parte in Paesi in via di sviluppo. Un altro problema è l’accesso ai beni turistici, che da un lato si rende necessario per sottrarci al problema dell’overtourism, dall’altro introducendo il numero chiuso può generare discriminazioni di senso.

Qui si inserisce il grande tema filosofico dello sfruttamento: è chiaro che quando accusiamo qualcuno di sfruttare qualcun altro, ci troviamo davanti al paradosso per cui quella persona, sfruttando, sta comunque rendendo migliore la condizione economica della persona che sfrutta rispetto alla situazione in cui tra le due parti non c’è transazione economica. A me sembra allora che, ancora una volta, bisognerebbe pensare seriamente agli scambi economici in ambito turistico. Pensare a questi scambi significa porre attenzione al potere contrattuale che ci sta dietro non in termini di buoni sentimenti, ma di un’argomentazione filosofica che sostenga certe conclusioni. Faccio un esempio: il caso degli sherpa. Gli sherpa si arricchiscono molto, dal punto di vista economico per gli standard locali, ma subiscono una serie di effetti collaterali del loro lavoro, compreso il rischio di morire di morte prematura, che ci spinge a interrogarci sulla moralità delle ascensioni sull’Everest, specialmente quando tali ascensioni sono compiute da persone che non sono preparate quanto lo richiederebbe l’impresa.

Un terzo elemento d’insostenibilità è definito dal criterio del rispetto della dignità delle persone della comunità che visitiamo. Questo è molto evidente quando si va a fare turismo nei Paesi in via di sviluppo, culturalmente lontani da noi, dove si mettono in atto dei comportamenti che sono irriguardosi. A volte sono irriguardosi per la cultura locale, ma ancora più spesso la mancanza di rispetto è legata a comportamenti che nei nostri luoghi di residenza non terremmo mai (ad esempio: filmare una cerimonia funebre).

La mancanza di rispetto delle persone e della loro dignità si può realizzare anche in certe forme di dark tourism o turismo del macabro: pensiamo a quanti andavano a visitare il relitto della Costa Concordia e magari si facevano selfie col relitto alle spalle; o pensiamo al caso di quanti si fanno i selfie ad Auschwitz. Nel dark tourism la tragicità degli eventi diventa motivo del nostro svago. Trascuriamo così il fatto che ci comportiamo come se queste tragedie non fossero mai avvenute. Ritengo che sia una situazione altamente simbolica perché segnala la deriva che ha preso il turismo. Una deriva che forse a sua volta simboleggia una deriva complessiva: tutto può essere oggetto di turismo e, di conseguenza, tutto può essere oggetto di diletto indipendentemente da quel che è accaduto in luoghi che richiederebbero un contegno ben diverso. In generale, è passata l’idea che tutto può essere trasformato in un selfie, ossia in un’attività giocosa. Se ci interroghiamo sui limiti etici del turismo, probabilmente interrogarci un po’ in profondità su questo tipo di comportamento ci spinge anche a interrogarci su cosa siamo diventati: turisti che rischiano di perdere ogni capacità riflessiva sulle cose.


Nell'immagine di copertina un fotogramma di “Austerlitz”, film documentario del regista polacco Sergey Loznitsa. Una riflessione necessaria sul valore della memoria e sulla sua museificazione nell’era degli smartphone


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