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“Terra”, la conoscenza passa dal genius loci

L'esploratore Massimo Maggiari è l'autore controcorrente che ci accompagnerà alla scoperta del quinto termine chiave per mettere a fuoco il senso delle vacanze. «Il mondo e la sua anima ci invitano a conoscere la singolare preziosità del momento. Assaporandola. Di conseguenza, non possiamo che provare gratitudine. Rispetto per l’ambiente che ci ospita. Perché le terre camminano sempre con noi. Co-creando le circostanze del nostro avventurarci nelle quattro direzioni»

di Massimo Maggiari

Parlare di montagna è parlare del viaggio. Parlare di montagna significa parlare di esperienza, avventura, spiritualità. Vita. Sono appena riemerso da quel deserto che cresce infinito nel Messico nord-orientale. Scrivo questo messaggio ai lettori di Vita con quello spazio negli occhi e nel cuore. Da tempo è mia convinzione che la parola anima (la nostra, quella dei luoghi: genius loci) non rimandi a un concetto astratto ma al contrario verso un’esperienza realizzata in process.

Ovvero in movimento. Specialmente camminando. In tale frangente, se prestiamo attenzione, può affiorare in noi un sentimento di reciproca assonanza con la superficie terrestre: e il suo battito orografico. L’esercizio non è difficile da eseguire. Basta smettere di guardare solamente intorno e porgere lo sguardo a come appoggia il piede a ogni passo. Sentirsi scalzi certo aiuta, e vi assicuro il risultato a volte può sorprenderci. Camminare in piano, lungo una leggera pendenza, per una ripida scarpata, o un verticalissimo sentiero alpino manifesterà nel nostro sentire una traccia diversa. Un battito unico che apprezzeremo a ogni sosta.

Il mondo e la sua anima ci invitano a conoscere la singolare preziosità del momento. Assaporandola. Di conseguenza, non possiamo che provare gratitudine. Rispetto per l’ambiente che ci ospita. Perché le terre camminano sempre con noi. Co-creando le circostanze del nostro avventurarci nelle quattro direzioni. Basta ascoltare in silenzio e scopriremo questa segreta alleanza. Passetto per passetto. A ogni generazione una svolta. Un limite valicato. Oltre le consuete mete conosciute. Senza sfoggiare trofei, oppure sponsor, e neppure champagne da festeggiamento.

Sono salito a tremila metri con Don Mateus. Ai nostri piedi il deserto. Sulla sommità della vetta ancora in vita quella sua distante realtà. Asciutta, essenziale. Follemente luminosa. Il deserto d’altura è più desertico del deserto. Neanche gli scorpioni lassù s’aggirano. A un certo punto, sostiamo tra le rovine spagnole di un antico rifugio per minatori. Quassù, all’arrivo degli europei, l’argento si raccoglieva come il grano lungo il profilo delle colline. In superficie. Poi col passare del tempo sempre più giù nei tunnel oscuri. L’uomo di conoscenza, il viaggiatore “lento”, “responsabile” prende fiato, si ferma in mezzo all’ampio selciato, e fa una confidenza.

Ha vissuto da queste parti per tre anni. Solo, girovagando a caso, e trovando rifugio da un buco all’altro. Nella Madre Terra. Il capo Huichol gli aveva parlato chiaro. Vuoi diventare un uomo di conoscenza? Perditi lassù e torna fra tre anni. Se riuscirai in questa prova, ti mostrerò la via alla “guarigione” per la nostra gente. Prima però devi imparare dalla Terra. Sentirti parte di essa. Liberarti dalla zavorra dell’artificioso. Sorridere alla paura. Fraternizzare con l’ombra.

Mentre lo ascoltavo, pensavo a uno sciamano inuit incontrato da Knud Rasmussen ai primi del Novecento. Nel cuore del Passaggio a Nord-Ovest. Alla domanda di come si diventasse sciamani — ricordo che questo termine significa “uomo di conoscenza”, non altro — aveva risposto in modo criptico, ma diretto: «La conoscenza non si compra né si vende. Si conquista. Anche so rendo. In solitudine, laggiù sulla banchisa. Immersi in una lunga attesa, dove lo squarcio di luce nel cielo apre all’azzurro quando vuole. Proprio allora gli spiriti mostrano la loro presenza. Rivelando compassione per noi. Soltanto così possiamo trovare la visione di un cammino, l’utopia di una meta improvvisa. Connessi con l’ombelico del mondo. Ma bisogna crederci, e credere non è facile».

Se questo vale per l’Artico o per le alture desertiche del Messico, vale anche per tutti gli altri spazi. Soprattutto, vale per la montagna. Confrontandoci con la montagna, i suoi spazi, i suoi silenzi abbiamo bisogno di piccoli gesti quotidiani che mostrino affetto al non ovvio. Non costose burocrazie da summit. Viaggiare fa bene. È senz’altro un antidoto. Ma è bene farlo col cuore in mano, propositivi e allo stesso tempo recettivi al mondo, alle sue creature, alle sue storie. È pure consigliabile muovere il primo passo quando tutti gli altri dormono. Soli come un’alba che cresce al mattino.

Viaggiare senza valigia. Con una storia nel cuore. A passo leggero e scandito su sabbia, selva o ghiaccio. Questa è l’avventura di una vita. Vale a dire, una magia in cerca di un destino. Si dice che sia cruciale perdersi per ritrovarsi. Rispondo senz’altro: sì. Poi chiudo gli occhi per ritrovarmi ancora una volta sulla banchisa. Su di una lastra di ghiaccio che fugge via dalla costa. Assieme a chi da sempre attende l’emersione della balena. Del suo canto. Pregando, come in un tempio, la sacralità del vento.


Nell'immagine di copertina un'immagine del deserto di Sonora in Messico


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