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Reale, Fondazione Adecco: «L’inclusione crea valore, il progetto Safe In lo dimostra»

Placement al 70 per cento, 66 titolari di protezione internazionale assunti nei due anni dell'azione promossa da JPMorgan Chase Foundation e Fondazione Adecco per le Pari Opportunità. «Le aziende sono entusiaste, la motivazione della persona inserita è spesso uno stimolo per l'intero gruppo di lavoro», spiega il Segretario Generale di Fondazione Adecco

di Daniele Biella

Ben 188 persone prese in carico, di cui 159 inserite in un percorso di orientamento al lavoro che ha portato, per 116 di loro, a un’esperienza lavorativa vera e propria. “Questi numeri parlano chiaro: i risultati del progetto Safe In sono ampiamente sopra le attese”, sottolinea Francesco Reale, Segretario Generale di Fondazione Adecco per le Pari Opportunità. Iniziato a dicembre 2017, Safe In, promosso da JPMorgan Chase Foundation e Fondazione Adecco per le Pari Opportunità a Roma e Milano e destinato a titolari di protezione internazionale e richiedenti asilo in Italia, si concluderà, con un evento finale di presentazione risultati e metodologia, a novembre 2019. “Si è creato un modello virtuoso che funziona. Speriamo ci siano le condizioni e le risorse per continuare anche nel 2020”, aggiunge Reale.

Quali sono gli elementi che rendono il progetto Safe In un’iniziativa di successo?
Innanzitutto il forte impegno di tutti gli attori coinvolti: da JPMorgan Chase Foundation per l’impegno valoriale nell’inclusione e il supporto economico, la nostra Fondazione con i percorsi di educazione al lavoro, orientamento e formazione e tutte le imprese del mondo profit che si sono dimostrate aperte a includere rifugiati e ad avviare una collaborazione . Fin dalle fasi dell’orientamento prima e della formazione professionale poi – 113 persone hanno svolto corsi di addetto alla ristorazione, ciclofficina, sfilettatura del pesce, addetto alla produzione, pelletteria, informatica – c’è stata una grande attenzione a ricercare quali talenti e quali sbocchi il panorama lavorativo avrebbe potuto offrire in questo periodo storico.

Quali sono stati i settori in cui c’è stato il maggior inserimento lavorativo?
Nella ristorazione, in particolare panificazione e pasticceria, anche nei supermercati di catene importanti. Ma anche nella pelletteria, dalle piccole aziende ai grandi marchi, abbiamo trovato porte aperte. Poi ci sono state le sorprese, ovvero mestieri che non avevamo considerato all’inizio ma che ci sono stati segnalati dalle aziende stesse: per esempio la pescheria, dove c’è mancanza di manodopera per pulitura e sfilettatura del pesce. Al mercato del pesce di Milano, in particolare, è stato portato avanti un corso di formazione molto proficuo.

Dopo il corso di formazione com’è andata la ricerca di lavoro?
Direi positivamente, con un placement attorno al 70 per cento e 66 persone titolari di una forma di protezione, spesso giovani, stabilizzate con contratto a termine, indeterminato o partita iva. A Milano, in particolare, il Celav (Centro di Mediazione al Lavoro) ha supportato economicamente alcuni tirocini in azienda, ma nella maggioranza dei casi sono state le aziende stesse a farsene carico grazie alla formazione e all’orientamento garantiti dal progetto.

Ve l’aspettavate un placement così alto?
Lo speravamo. Siamo convinti che la vera integrazione passi dal lavoro, dall’avere un mestiere e una propria autonomia. Perché la persona sente di acquisire dignità e questo si riflette positivamente sulla propria vita sociale: l’elemento prevalente tra le persone inserite è proprio l’entusiasmo del fare, del sentirsi utili e integrati nel gruppo di lavoro. Safe In punta proprio a questo, soprattutto nel mondo dei giovani, e vedere anche le aziende e soprattutto i dipendenti credere nei nuovi lavoratori è un grande traguardo. Tra l’altro la rete di aziende oggi si conta a decine ed è raddoppiata dall’inizio del progetto. Per questo ci impegneremo per trovare una nuova forma d’azione simile alla chiusura di Safe In: è un modello replicabile, in particolare nei settori dove il lavoro c’è ma non si trovano le persone. E ovviamente si può replicare allargandola platea delle persone coinvolte, quindi non solo i rifugiati ma anche i Neet (Not in education, employment or training, ovvero ragazzi non impegnati in studio, lavoro o formazione), per esempio.

Quali sono nel dettaglio i riscontri che avete dalle aziende?
Ci viene detto che la persona inserita mostra una forte motivazione e il desiderio di apprendere, che risultano vincenti sia per superare eventuali problemi iniziali che per migliorare il clima lavorativo. I nostri referenti in azienda ci hanno riferito più volte che la dedizione al lavoro del giovane rifugiato ha innescato una sorta di tutoraggio “naturale”, ovvero colleghi che si sono prestati ad affiancarlo e supportarlo in modo del tutto spontaneo. Altre volte, l’attenzione dei colleghi ha permesso al nuovo inserito il superamento di modi di fare legati al suo paese d’origine che in Italia possono risultare controproducenti: per esempio, un ragazzo che non era abituato a guardare le donne negli occhi per rispetto ma si trovava a lavorare dietro a un banco di un market ha man mano imparato a ricambiare lo sguardo, senza problemi e a sorridere. Ancora, in altri ambienti addirittura è migliorata la performance generale del gruppo di lavoro in termini di produttività da quando è stata inserita una persona proveniente dal progetto Safe In. Tutti questi aspetti ci fanno capire l’efficacia dell’azione che abbiamo portato avanti in questi due anni, e quanto il mondo del profit possa giovare della mediazione del non profit al momento di investire nella selezione di nuovo personale.

Allargando il ragionamento al futuro e al mondo del lavoro in generale, quali prospettive vede per l’inserimento lavorativo di categorie svantaggiate?
Sono molto fiducioso. Il perché lo vedo con i miei occhi quando entro nelle aziende: la maggior parte sta capendo che l’inclusione crea valore e occuparsi di persone in difficoltà diventa parte della propria strategia e il cuore della responsabilità sociale dell’azienda. La diversità in azienda è ricchezza e oggi la non gestione di questi aspetti può portare nel medio-lungo termine a problemi di clima interno o di brand più in generale. È finita l’epoca in cui il “diverso” veniva escluso, oggi non è più pensabile, la persona deve essere al centro e le nuove generazioni sono molto attente a queste tematiche, i “millennials” oggi occupano posizioni di rilievo, sono protagonisti di questo cambiamento. Questo discorso va al di là delle leggi e degli obblighi in vigore, e mi riferisco alle categorie protette, riguarda i nostri valori e il ruolo attivo delle aziende nella società quali facilitatori dell’inclusione sociale. Anche l’UNHCR, l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, valorizza molto questo concetto e dedica un progetto apposito, Welcome. Working for Refugee Integration, un riconoscimento annuale – attraverso l’assegnazione di un logo ad hoc – dedicato alle aziende che si sono distinte nell’inclusione lavorativa dei rifugiati. Siamo contenti, tra l’altro, che tra i vincitori dell’edizione 2019 ci siano proprio aziende che hanno lavorato al nostro fianco al progetto Safe In.


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