Cooperazione & Relazioni internazionali

“Uccisi davanti ai loro occhi”, tre fermi a Messina per torture in campo di detenzione in Libia

Attraverso le testimonianze dei migranti sbarcati il 7 luglio dal veliero Alex di Mediterranea, la Procura di Agrigento e la Dda di Palermo sono riusciti a individuare tre carcerieri che sottoponevano a tortura dietro pagamento di un riscatto i migranti trattenuti nel centro di detenzione a Zawya

di Alessandro Puglia

I racconti denunciati da anni dai migranti sbarcati in Sicilia e dalle maggiori organizzazioni internazionali presenti in Libia trovano riscontro oggi anche attraverso l’operazione della Dda di Palermo e della Procura di Agrigento che hanno portato al fermo nell’hotstpot di Messina di tre persone accusate di sequestro di persona, tratta di esseri umani e tortura. I tre fermati, due di nazionalità egiziana, Hameda Ahmed, 26 anni, Mahmoud Ashuia, 24 anni, e Mohammed Condè, detto Suarez, originario della Guinea, avrebbero trattenuto nel campo di detenzione libico di Zawya migranti pronti a partire per l’Italia, sottoponendoli a torture e facendoli assistere alla morte di altri compagni di viaggio. Le vittime venivano quindi tenute sotto sequestro e rilasciate solo dopo il pagamento di un riscatto.

L’operazione è stata possibile grazie anche al riconoscimento da parte delle vittime sbarcate a Lampedusa il 7 luglio scorso dal veliero Alex di Mediterranea che hanno riconosciuto i tre carcerieri attraverso le foto segnaletiche mostrate dalla polizia dopo lo sbarco.

I tre carcerieri erano arrivati in Italia qualche mese prima delle vittime. Conde' aveva il compito di catturare, tenere prigionieri i profughi e chiedere ai familiari il riscatto. Solo dopo il pagamento le vittime potevano proseguire il loro viaggio. Era Conde' a dare ai profughi il cellulare per chiamare a casa e chiedere il denaro. Ahmed e Ashuia sarebbero gli altri due carcerieri: le vittime hanno raccontato anche di essere state torturate e malmenate da entrambi e appunto sottoposte ad atroci violenze.

Le indagini hanno permesso di individuare ilcapo dell'organizzazione per cui lavoravano i tre fermati: Ossama che vive ancora ancora in Libia e gestisce il campo di prigionia di Zawyia in Libia, dove migliaia di profughi diretti in Italia subiscono lo stesso orribile trattamento inumano.

Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un "telefono di servizio", tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia.

«L'indagine che ha portato al fermi di tre presunti carcerieri di un lager libico ha dato la conferma delle inumane condizioni di vita all'interno dei capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l'umanità», ha dichiarato il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio.

I fermati sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all'omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione.


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